In Italia, c’è una lingua che parlano in tanti ma che nessuno ha mai sentito: è la lingua dei segni. La usano soprattutto le persone sorde, ma non solo. Ed è una lingua che non è riconosciuta dalla legge, con una lunga serie di conseguenze pratiche e identitarie per chi la usa.

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Le lingue dei segni (in Italia, LIS) nascono all’interno delle comunità di sordi, per i quali la comunicazione verbale è naturalmente impedita. I sordi, cioè, non sentendo né la voce degli altri, né la propria, non imparano spontaneamente a parlare come succede ai bambini udenti. Ed è per questo che un tempo venivano chiamati sordomuti. Da diversi decenni non è più così: oggi i bambini sordi imparano a parlare grazie alla logopedia e anche la parola sordomuto è stata espunta da tutti i documenti ufficiali, questa volta sì, per legge per legge.

In ogni caso, sia i sordi  sia gli udenti possono fare conversazione senza impiegare l'apparato fonoarticolatorio.E in tanti lo fanno correntemente. Così capita di osservare persone intente a scambiarsi informazioni muovendo le mani, come a disegnare il cielo o a costruire cose nello spazio. Se ci si avvicina, si nota anche che non sono solo mani: sono braccia che spostano l’aria, corpi che oscillano, dita che volano, visi espressivi.

Perché la lingua dei segni, riconoscimento di legge o meno, esiste. Esiste da sempre, in ogni posto in cui almeno due sordi si siano potuti incontrare e abbiano potuto sviluppare liberamente un proprio codice visuo-spaziale per comunicare. Il fatto che in Italia non sia riconosciuta definisce una seconda invisibilità per le persone sorde, oltre a quella costitutiva di una disabilità priva di segni esteriori. Perché gli altri, gli udenti che non conoscono la lingua dei segni, non sono abituati a vederla usare e ne hanno talvolta una strana fascinazione alimentata da una mitologia bislacca (sarà una lingua universale? No, perché dovrebbe esserlo? Oppure: è così bella la comunicazione silenziosa… Quando i sordi, proprio essendo sordi, generalmente sono anche molto rumorosi). In altri casi ne hanno quasi paura: non avendola mai vista la trovano misteriosa e incomprensibile. Per non parlare dei servizi e degli sportelli pubblici, dove lavorano esclusivamente le persone udenti: oggi per le persone sorde sono quasi del tutto inaccessibili se non a prezzo di grandi fatiche e incomprensioni.

Ma se i sordi oggi sanno parlare, direte voi, perché dovrebbero trovare un interprete alle poste o in ospedale? Perché sanno parlare, ma continuano a essere sordi. E non possono sentire. Allora leggono il labiale. Solo che, perché questo avvenga, le labbra devono essere in primo piano, devono articolare bene, non devono essere coperte da baffi né da mani, la bocca non deve essere piena, la stanza deve essere illuminata, la testa deve restare ferma… E tutte queste condizioni non si realizzano senza la massima attenzione da parte dell’interlocutore udente, e di un po’ di abitudine. Poi i sordi, come chiunque sia andato a scuola, sanno leggere e scrivere in italiano, ma capirete che scriversi bigliettini in un pronto soccorso non sempre è il modo di comunicare più efficiente. E ora immaginatevi un grande evento pubblico come un festival della filosofia, un congresso di specialisti, una lezione universitaria, una delle tante cose che fa vita culturale, o anche vita e basta. Come può una persona sorda leggere il labiale di un relatore sconosciuto in una sala grande e piena di gente? Come può seguire un dibattito?

Proprio per l’assenza di una legge che favorisca l’uso della LIS e l’identificazione degli interpreti professionali, generalmente succedono due cose: o ai sordi non si pensa, e quindi vengono esclusi a priori. O ci si pensa, ma in maniera un po’ dilettantesca. Così capita di assistere a situazioni in cui si chiama qualcuno che genericamente “ci sa fare”, in nome dell’idea che coi sordi basta gesticolare un po’. È come se si chiamasse un interprete che conosce male l’italiano a una conferenza in cui un relatore inglese parla di Shakespeare, perché ne approssimi i contenuti per un pubblico ritenuto un po’ meno all’altezza. Un pubblico per cui questo è già tanto. Allo stesso modo, la televisione non garantisce quasi mai sottotitolature di buona qualità, e non succede per tutti i programmi: di nuovo, si scelgono quelli più facili, assumendo che un sordo, in fondo, possa anche fare a meno dell’accesso a contenuti “alti”.

Ma garantire la piena espressione dei diritti di cittadinanza e la piena partecipazione di tutti alla vita di una comunità è una questione di democrazia. E se pensate che la LIS c’entri poco, sappiate che la Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, ratificata dal nostro paese nel 2006, afferma la necessità di tutelare e promuovere le lingue dei segni. Non ci sono vie di mezzo: visibilità e cittadinanza delle persone sorde dipendono anche dal riconoscimento legale della LIS. Come lingua.

Attenzione: il riconoscimento della LIS non impone ai sordi di segnare. Si tratta semplicemente di affermare il diritto a scegliere di volta in volta quale sistema di comunicazione usare per avere la migliore garanzia di accessibilità ai servizi. In generale, soprattutto in tema di disabilità, sarebbe bene rivolgersi alla persona e accettare la sua complessità piuttosto che affidarsi a considerazioni astratte e teoriche su quello che è meglio per lei e per “quelli come lei”. Ci sono anche sordi che non conoscono la LIS, per dire: il punto è proprio che generalizzare, ed escludere generalizzando, è comunque un errore.

Se spostiamo il discorso dal piano sociale e di cittadinanza a quello educativo, vale la pena notare che per garantire alla persona sorda maggiori possibilità di scelta e di orientamento, la strada migliore è quella del bilinguismo. In questo caso si tratta di un bilinguismo bimodale (una lingua dei segni e una lingua parlata, ad esempio l’italiano), ma come per i bilinguismi vocali (italiano – inglese e così via) deve essere considerato una ricchezza. Diverse ricerche scientifiche hanno mostrato che l’apprendimento di una lingua dei segni, sia nei sordi sia negli udenti, non solo non ostacola il processo di apprendimento della lingua vocale, ma anzi lo favorisce, al pari dell’acquisizione simultanea di due lingue vocali nei bambini udenti. Ed è anche facile da capire, se pensiamo a un bambino sordo che con i segni può avere un accesso facilitato a concetti che con la lingua vocale possono comportare una grande fatica: imparare una lingua fornisce uno strumento per capire l’altra, e ogni parola permette di avere accesso a un mondo nuovo.

Poi, certo, si tratta anche di favorire le predisposizioni individuali e di sfruttare i contesti in cui il bambino sordo cresce, ma lo scopo deve essere sempre quello di favorirne un’educazione proficua e un inserimento sociale sereno. Senza escludere niente che possa aiutarlo a crescere.
Anche questo aspetto sarebbe favorito dall’approvazione di una legge sulla LIS, mentre oggi, in ambito scolastico, capita di trovare figure professionali non specializzate nell’insegnamento e nell’educazione dei bambini sordi, a cui questi bambini sono affidati senza troppa attenzione.

E all’estero come va? Le lingue dei segni al mondo sono moltissime.Tra queste, quasi tutte le lingue dei segni europee sono legalmente riconosciute. Perché in Italia non ci riusciamo? Per un antico atteggiamento della comunità medica, che ha sempre preferito affrontare la sordità solo come una malattia, un pezzo di corpo da riparare, trascurando la complessità dell’individuo che con quel pezzo rotto ci nasce e a volte, proprio per questo, non avverte nemmeno una gran sofferenza. Almeno finché non diventa una sofferenza sociale.

Nell’ambito dell’educazione per i sordi, le lingue dei segni erano utilizzate già agli inizi del Settecento. Ma, nel 1880, proprio in Italia, a Milano, in occasione del secondo Congresso Internazionale sull’Educazione dei Sordi (ICED), vennero bandite, affermando che ogni sordo dovesse essere educato alla sola modalità acustico-vocale. “Il gesto uccide la parola” era lo slogan che allora (e tuttora) riassumeva questa posizione. E quante mani sono state legate dietro la schiena dei bambini sordi da allora.

Eppure, le lingue dei segni hanno continuato a esistere: del resto non puoi vietare una lingua. Così in occasione del 21° Congresso ICED, svoltosi in Canada nel 2010, alcuni partecipanti hanno chiesto scuse pubbliche per la risoluzione del 1880 e l’hanno ufficialmente rigettata. Così oggi, in Italia, sebbene siano già molte le regioni e province italiane che riconoscono la LIS nelle legislazioni locali, il riconoscimento nazionale è ancora bloccato alla Camera, e si porta dietro un ventennio di proposte, bozze, emendamenti e stravolgimenti vari.

Allo stato attuale, abbiamo almeno due nuove proposte di legge. Ma potrebbero arrivarne di nuove e grande è la confusione sotto questo cielo. Le spaccature sono profonde e quasi impossibili da riassumere, con le loro motivazioni comprensibili e le loro comprensibili necessità di operare distinguo in una materia dove si confondono istanze educative, sociali, mediche, pedagogiche, legali, e persino economiche (chi pagherà gli interpreti?). Per le ragioni che abbiamo espresso fin qui, la comunità segnante (che non è composta esclusivamente da sordi!) vede nel riconoscimento della LIS un motore di integrazione e di promozione dei diritti di cittadinanza. Dall’altra parte ci sono alcune associazioni di genitori udenti di bambini sordi che temono che il riconoscimento della LIS possa portare i sordi a chiudersi in una minoranza linguistica, impermeabile ai rapporti con le persone udenti. Per cui continuano a puntare l’attenzione sulla questione medica e riabilitativa, altri aspetti della vita della persona sorda su cui la legislazione è effettivamente carente.

Ma tutto questo potrebbe essere risolto ricordando che la LIS è una lingua, da rispettare di per sé e per chi la usa. E ricordando che le persone sorde sono, appunto, persone. Come tutti, hanno il diritto di esprimersi e di scegliere come farlo, con l’obiettivo quasi ovvio di raggiungere la propria personale massima felicità.

  • Silvia Bencivelli è medico e giornalista scientifica, udente e non segnante. Valentina Foa è psicologa, sorda dalla nascita e bilingue italiano – LIS.  Sono rispettivamente autrice e consulente scientifica del documentario Segna con me (www.segnaconme.it), con la regia di Chiara Tarfano.