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Il rifiuto della Società Italiana di Fisica (SIF) di sottoscrivere l’appello delle società e delle associazioni scientifiche italiane per la Conferenza sul Clima di Parigi ha il discutibile merito di aver riportato la discussione sui cambiamenti climatici al livello della lotta tribale tra catastrofisti e negazionisti, incardinando il dibattito su una questione ormai largamente superata: se i cambiamenti climatici di origine antropica esistano o meno.

Le ragioni per le quali la SIF non ha firmato l’appello riguardano l’opportunità, caldeggiata dai fisici e rifiutata dalle altre società, di inserire nel testo una sorta di “clausola probabilistica”, l’espressione likely (probabilmente) nelle frasi più decisive, e sembrano implicare una sorta di fastidio verso una scienza in sé altamente probabilistica, la climatologia, che si fonda soprattutto su modelli statistici, suscettibili quindi di approssimazioni ed equivoci tra correlazioni a causazioni: “La SIF è un’associazione di fisici abituati a considerare leggi fisiche regolate da equazioni più o meno complesse - scrive la presidente Luisa Cifarelli - e risultati espressi con il dovuto livello di confidenza o di probabilità o di verosimiglianza. Questo, del resto, è il metodo scientifico. Il documento in questione contiene nelle sue premesse delle affermazioni date come certezze incontrovertibili a proposito dell’origine antropica dell’attuale cambiamento climatico. Ma le verità scientifiche non possono basarsi sul consenso generalizzato, mescolando scienza e politica, come sta avvenendo in questo caso”.

Dichiarazioni che contengono elementi di verità, e la cui foga polemica deriva forse dal fatto di provenire non da un documento ufficiale, ma da un commento a un post del blog della Società di Chimica che a sua volta lamentava la propria esclusione dalle discussioni. E’ necessario, come si vede, un notevole sforzo di contestualizzazione per comprendere il terreno e il fertilizzante su cui questo dibattito è germogliato.

Al di là delle polemiche da ballatoio tanto frequenti nel mondo accademico, quindi, è necessario tirare una linea su due questioni: la prima riguarda la gara tra discipline scientifiche a chi è più scienza delle altre - e le strumentalizzazioni che questa gara incentiva - la seconda il significato di “consenso scientifico”, la sua importanza in generale e più in particolare nel caso dei cambiamenti climatici.

Sì, esistono scienze più precise delle altre: la matematica, poi le scienze sperimentali, e poi oltre, in un livello di approssimazione che fornisce rappresentazioni sempre meno nitide della realtà. Dove si collochi, in questa piramide, la climatologia, non è tanto importante. Quello che è più importante è che se qualcuno vuole negare la validità di una teoria, o di un modello climatico, deve farsi carico di produrre una teoria o un modello migliore. E’ corretto evidenziare il livello di approssimazione di una teoria, ma questo non autorizza a considerarla una semplice opinione in assenza di prova contraria. Ricordate quando Odifreddi arrivò a dire che, dal momento che la storiografia non è una scienza esatta, l’esistenza delle camere a gas era da considerarsi una mera opinione, e non un fatto dimostrato dalla ricerca storica? Sul clima si rischia di fare esattamente lo stesso errore.

E qui arriviamo al secondo punto della questione, il consenso scientifico. Chi conosce l’ABC del metodo scientifico sa che la scienza non si esprime a colpi di maggioranza, altrimenti la Terra sarebbe ancora piatta, e il Sole le girerebbe ancora attorno. Ma anche la rivoluzione copernicana, così come tutte le grandi rivoluzioni scientifiche, non sono state il frutto di un esercizio retorico volto a mettere aprioristicamente in discussione le osservazioni altrui, quanto la conseguenza di una “prova contraria”, che in questo caso continua a mancare.

Lo esprime con molta chiarezza un grande esperto di scetticismo in ambito scientifico, Michael Shermer, in un articolo apparso su Scientific American e tradotto in italiano su Le Scienze:

Vi è una convergenza di prove provenienti da più linee di indagine: pollini, anelli degli alberi, carote di ghiaccio, coralli, scioglimento dei ghiacciai e della calotta polare, innalzamento del livello del mare, spostamenti ecologici, aumento dell'anidride carbonica, aumento della temperatura a un ritmo senza precedenti, convergono tutti su un'unica conclusione. Quanti dubitano del riscaldamento globale antropogenico additano l'anomalia occasionale in un particolare insieme di dati, come se una incongruenza contraddicesse tutte le altre linee di evidenza. Ma non è così che funziona il consenso nella scienza. Per sovvertire il consenso, gli scettici dovrebbero trovare difetti in tutte le linee di evidenza che lo sostengono, e mostrare una convergenza di prove consistente che punta verso una teoria differente che spieghi i dati (I creazionisti hanno lo stesso problema con la teoria dell'evoluzione). E non lo hanno fatto.

La validità del consenso scientifico sui cambiamenti climatici, quindi, non si misura tanto nella qualità delle affermazioni del 97 percento degli scienziati che concordano sulla sua origine antropica, quanto sulla qualità delle affermazioni del 3% - se fossero di più sarebbe esattamente lo stesso - che non sono d’accordo. Continua Shermer:

In uno studio pubblicato nel 2013 sulle “Environmental Research Letters” i ricercatori australiani John Cook, Dana Nuccitelli e colleghi hanno esaminato gli abstract di 11.944 articoli sul clima pubblicati dal 1991 al 2011. Tra gli articoli che prendevano una posizione sul riscaldamento globale antropogenico, circa il 97 per cento concludeva che il cambiamento climatico è reale e causato dagli esseri umani. E il restante 3 per cento circa di studi? E se avessero ragione? In un articolo pubblicato nel 2015 su “Theoretical and Applied Climatology”, Rasmus Benestad del Istituto meteorologico norvegese, Nuccitelli e colleghi hanno esaminato quel 3 per cento, trovando "un certo numero di difetti metodologici e uno schema di errori comuni". Ossia, invece di convergere su una spiegazione migliore di quella fornita dal 97 per cento, quel 3 cento di articoli non riusciva a convergere su nulla.

Diverso invece è il discorso della commistione tra scienza e politica, evocato dalla Cifarelli: qui il problema è reale, almeno nella misura in cui una certa vulgata continua a far dipendere dall’accettazione dell’esistenza dei cambiamenti climatici, come unico rimedio possibile, la “decarbonizzazione” dell’economia, attraverso la sostituzione forzata - o sussidiata - dei combustibili fossili con fonti energetiche rinnovabili, a prescindere dalla loro efficienza. Questa è un’equazione tutt’altro che scontata, e forse è su questo che sarebbe opportuno oggi discutere, piuttosto che attardarsi su questioni che appaiono sempre più di retroguardia. Lo fanno ad esempio Marzio Galeotti e Alessandro Lanza su LaVoce, evidenziando come la quantità di anidride carbonica per unità di energia consumata sia calata in maniera risibile dal 1971 a oggi, mentre il rapporto tra energia consumata e PIL suggerisce che la policy climatica di maggiore impatto sia quella che persegue l’efficienza energetica negli usi finali, piuttosto che quella che punta a sostituire le fonti di energia. In soldoni, nella riduzione di CO2 risulta più efficace il risparmio di energia, frutto del progresso tecnologico e dell’innovazione, rispetto alle costose e inefficienti politiche di sussidio alle energie rinnovabili.

Il paradosso della Conferenza di Parigi è che proprio nel momento in cui sembrano essersi definitivamente dissipati i dubbi sull’origine antropica dei cambiamenti climatici, l’interesse verso questo tema sembra andare calando. Frutto della crisi economica, forse, che ha distolto l’attenzione dell’opinione pubblica verso altre priorità. Ma frutto anche, probabilmente, di un dibattito pubblico fortemente ideologico che torna sempre, come in un eterno gioco dell'oca, alla casella di partenza.

@giordanomasini