grillo farmaci

La depressione è un disturbo serio, molto frequente, affrontato spesso nel modo sbagliato. Uno dei modi peggiori è quello di sollevare un polverone inutile, gridando all’allarme. Ed è ancora peggio se tale allarme è legato alla vita di bambini e adolescenti. Tutto diventa poi irritante se il polverone scatenato nasconde il punto focale della questione, che in questo caso sono in realtà due: il pericolo di gravi storture (quando non frodi) che nasce dall’intima connessione tra ricerca scientifica e industria, e la capacità della comunità scientifica di smascherarle messa a repentaglio dalla violazione dei uno dei suoi principi cardine: la disponibilità pubblica dei dati.

Partiamo da Grillo. Tramite il suo blog e i suoi canali subalterni, è diventato in questi giorni (o si è confermato, a seconda dei gusti) campione di allarmismo. Non bastano i titoloni acchiappa click degli organi della propaganda (da La Cosa a Tze Tze). A volte, come in questo caso, è direttamente il Sacro Blog a lanciare l’allarme - pesantissimo - sul pericolo in cui incorrono bambini e adolescenti che soffrono di pressione se curati con un farmaco specifico: la Paroxetina, un inibitore selettivo della ricaptazione della serotonina (SSRI)

Lo studio pubblicato dal BMJ. Uno studio pubblicato a settembre dal British Mediacal Journal (BMJ) mostra infatti come la Paroxetina abbia effetti simili al placebo nei giovanissimi ma, a differenza del placebo, comporti un aumento notevole di effetti collaterali gravissimi, come la tendenza al suicidio. La ricerca smentisce una precedente (ma non è la prima a farlo) del 2001, che diceva esattamente il contrario, trascurando però in maniera sistematica i dati negativi raccolti. Da qui nasce tutto il polverone. A distanza di due mesi dalla pubblicazione, i grillini vengono imbeccati dall’associazione “Giù le mani dai bambini” e nasce la grande campagna mediatica, sul blog, su Twitter, con anche una parte istituzionale: una lettera al ministro Beatrice Lorenzin in cui si chiede di sospendere subito la vendita dei farmaci. La vicenda, nonostante il can can grillino, non è affatto nuova: negli Usa, ad esempio, ci sono stati dei processi e la Glaxo - l’azienda fino al 2008 aveva il brevetto sulla Paroxetina - è stata condannata a pagare un risarcimento da 2,5 miliardi di dollari, il più grande di sempre per una casa farmaceutica, per aver mentito sugli effetti del farmaco e aver nascosto i risultati delle ricerche sfavorevoli, tra i quali proprio quelli sui bambini.

I medici danno ai bambini un farmaco che li induce al suicidio? Il peggio della cagnara grillina è che si lascia intendere che oggi i medici possano prescrivere come se niente fosse un farmaco che induce al suicidio bambini e adolescenti. È un’affermazione falsa: in questi giorni in tanti hanno già mostrato come il foglietto illustrativo del farmaco - sia nella sua formulazione ‘originaria’ che negli equivalenti - sconsiglia vivamente di somministrare la Paroxetina a giovani di età inferiore ai 18 anni, mettendo in allarme proprio sulle capacità del farmaco di incrementare le loro tendenze suicide. È un grave effetto collaterale conosciuto già da molto tempo, quasi vent’anni, e affrontato proprio con l’avvertimento di non somministrare il farmaco agli adolescenti e ai bambini.

Il problema di cui nessuno si è accorto in questi giorni. Nessuno, o quasi, facendosi prendere la mano dall'isterismo allarmista o dalla (comprensibile) voglia di smontare la bufala si è però soffermato ad analizzare il vero problema di fondo che emerge dalla vicenda: l'immensa difficoltà esposta dagli autori dell'articolo del BMJ nel verificare la correttezza degli studi senza l’accesso completo e libero ai dati. Questo caso - anche se si era già risolto per altre vie - è un indicatore della crescente difficoltà, senza opportuni accorgimenti, nell'individuare analiticamente le frodi scientifiche o, in generale, gli errori tramite il processo di verifica che è alla base della scienza.

Quando il rapporto tra ricerca e industria è malato. C’è stato uno studio, molto grosso, con oltre 275 casi analizzati, pubblicato 2001 nella rivista Journal of the American Academy of Child and Adolescent Psychiatry e che ha ‘provato’ l’efficacia della Paroxetina nei giovanissimi, minimizzandone i gravi effetti collaterali. Si chiama Study 329 e il suo autore principale è il professor Martin Keller che ai tempi lavorava alla Brown University, nel Rhode Island. La ricerca è iniziata a metà degli anni Novanta, quando la Paroxetina e tutti gli altri SSRI venivano prescritti solo per gli adulti e le case farmaceutiche stavano cercando di allargare il campo anche verso età inferiori. Lo studio di Keller - a cui partecipò anche un ricercatore della compagnia farmaceutica senza che la cosa venisse evidenziata - è stato usato dalla Glaxo (che si chiamava ancora Glaxo, Smith & Kline) per promuovere tra i medici l’uso della Paroxetina anche con i pazienti bambini o adolescenti. Anzi, di più, i risultati di quello studio erano stati manipolati a suo favore direttamente dall’azienda stessa tramite un sotterraneo lavoro di ghostwriting.

Stessi dati, conclusioni opposte. Dopo pochi anni - quando ancora si era all’oscuro di tutto - nacquero forti dubbi sulla validità dello studio: se ne occuparono indagini televisive, istituzioni e anche altri ricercatori, fino a che la Glaxo - che nel frattempo era stata condannata in giudizio - accettò di consegnare tutti i dati raccolti per effettuare lo studio. La ricerca pubblicata dal BMJ lo scorso settembre ha usato proprio quei dati e il suo protocollo originario (con alcune modifiche) evidenziando, in maniera ormai definitiva, che la Paroxetina nei giovanissimi non ha effetti ‘positivi’ superiori al placebo e, di contro, ha tremendi effetti negativi che nell’analisi pubblicata nel 2011, nonostante i dati ci fossero tutti, non erano stati considerati.

Le verifiche e i bastoni tra le ruote. Ma per arrivare a queste conclusioni il gruppo di ricercatori guidato da Joanna Le Noury ha dovuto sudare molto. I report sui pazienti messi a disposizione dalla Glaxo consistevano in 77mila pagine accessibili solo tramite desktop remoto. Un lavoro immane “estremamente dispendioso in termini di tempo”, tanto che “solo una persona ha potuto eseguire il compito” e si è scelto di esaminare solo 93 casi di avvenimenti avversi su 275 totali (il 34%). Inoltre, il lavoro di analisi dei dati rappresentati in maniera scorretta nella pubblicazione originale si è “dimostrato estremamente avido di risorse”. Gli autori hanno registrato scambi di mail con 250mila parole nell’arco di due anni. “Ottenere l’acceso ai case-reports - scrivono gli autori dello studio - ha richiesto una estesa corrispondenza con la GSK. E, nonostante alla fine GSK li abbia concessi, erano ancora più difficili da gestire dato che potevamo solo vedere una pagina alla volta. Ci sono volute circa mille ore per esaminare solo un terzo dei case-reports e non avere la possibilità di stamparli è stato un ulteriore handicap”.

Dati pubblici e regole condivise. Questo, non i bambini 'fatti suicidare', appare oggi come il fatto più allarmante, perché è un caso-tipo di un grosso problema che andrebbe risolto - o almeno attenuato - al più presto. Gli studi ‘negativi’ non pubblicati sono innumerevoli e il rischio di trovarsi davanti a ricerche che scelgono solo dati favorevoli a chi le finanzia è sempre dietro l'angolo. Questo comporta il rischio di trovare nelle farmacie sostanze dannose, spacciate come l’ultimo, meraviglioso, efficace e sicuro ritrovato della scienza. Ma senza regole condivise e perentorie sulla pubblicazione (ma verrebbe da dire 'liberazione') dei dati - di tutti i dati - che rendano possibile ab origine verificare sia la presenza di studi discordanti, sia la correttezza di quelli pubblicati, la capacità di autocontrollo propria del processo scientifico rischia di essere strangolata. E una comunità scientifica in tale difficoltà rischia di produrre danni e perdere credibilità.