La tragedia dell'airbus Germanwings precipitato sulle Alpi con le 150 persone che aveva a bordo sembra avere avuto un impatto sull'opinione pubblica più forte di quello di altri disastri aerei di analoghe dimensioni. Ci sono due aspetti paradossalmente in stridente contrasto tra loro, che probabilmente stimolano un'attenzione particolare. Da una parte il dato rassicurante: nessun guasto, gli aerei sono sicuri come non lo non mai stati, e per abbattere un aereo bisogna volerlo fare.

germanwings

 Anzi, volerlo fare può non essere sufficiente. E' necessario essere un pilota, sapere come ci si barrica in cabina e bisogna saper guidare un aereo fino allo schianto. Dall'altra parte, il dato che di questa medaglia è il suo rovescio: il pericolo può venire da dentro la cabina, il luogo sicuro per eccellenza che dopo gli attacchi dell'undici settembre è stato reso anche inviolabile, proprio perché intrinsecamente sicuro. Se l'aereo funziona e c'è un pilota che lo guida, tendiamo a credere, l'aereo arriva a destinazione. Ecco, l'incantesimo che si è rotto sulle Alpi francesi forse è proprio questo. La cabina non è necessariamente un luogo sicuro, una minaccia può venire anche dal suo interno, dalla volontà folle e omicida di un pilota. Probabilità remotissima, certo, ma come sappiamo non è il calcolo delle probabilità a determinare la percezione del rischio.

D'altronde i rottami dell'aereo sono lì, visibili sulle "pagine" della nostra quotidianità, e a fare paura è proprio la proiezione nel nostro quotidiano del volo Germanwings: follia, malattia mentale, depressione. La depressione, soprattutto, una parola di uso più che quotidiano per tantissime persone, in questi giorni è stata usata, forse troppo e probabilmente non troppo a proposito, per spiegare la follia di un pilota che schianta un aereo su una montagna con il suo carico di vite umane a bordo: Lubitz soffriva di depressione o ne aveva sofferto? La compagnia lo sapeva? In questi casi i media e l'opinione pubblica tendono a fare un collage dei pochi dati a disposizione, per creare un'immagine che riesca a rappresentare per intero le cause di un disastro, dall'inizio alla fine. Per questo, forse, la parola "depressione" si è ingigantita fino a superare i confini del suo significato medico per assumere le forme, improprie, del movente di una strage.

Mi trovo a parlare di questo con Valentina Mantua, medico psichiatra, allieva della scuola di Pisa, che si occupa di nuove terapie per i disturbi mentali. Ho letto un suo interessante articolo su Formiche e la contatto per avere qualche impressione in più ed evitare di affrontare un argomento tanto delicato con la banalità tipica delle persone curiose, ma non competenti.

Il primo punto di cui vorrei parlare è quello più delicato e controverso, dato che investe il rapporto delicato tra due esigenze entrambe legittime: da una parte quella di difendere gli individui dallo stigma sociale e dall'altra la sicurezza della collettività. A prescindere dal fatto che non è possibile fare diagnosi a distanza, peraltro di una persona deceduta, e che le informazioni a nostra disposizione sono davvero poche, non stiamo rischiando di colpevolizzare la depressione? Non si sta esagerando?

E' comprensibile che di fronte a una tragedia di questa portata si cerchi un colpevole e soprattutto si cerchi di stabilire un nesso causale tra i fatti in modo da rendere il fenomeno più controllabile e quindi più rassicurante. Credo che le speculazioni sulla diagnosi siano tentativi di rispondere a una domanda fondamentale: "si poteva evitare?". E' noto che una bassa percentuale di individui affetti da depressione esprime ideazione suicidaria e commette l'atto; quelli che poi commettono un suicidio/omicidio e addirittura una strage sono rarissimi. E quindi ne sappiamo davvero poco. Questi dati dimostrano che avere una diagnosi di depressione non rende potenziali suicidi e tantomeno significa essere pericolosi. Perché un paziente depresso commetta azioni come quella del co-pilota Lubitz devono combinarsi una serie di fattori di rischio contemporaneamente alla diagnosi di un particolare tipo di depressione con caratteristiche miste e spesso francamente delirante. Ad esempio il suicidio è molto più frequente negli uomini rispetto alle donne e nelle persone che tendono ad abusare di sostanze (compreso l'alcol) in risposta al malessere. Alcune caratteristiche temperamentali come l'impulsività ed elevati livelli di energia sono stati associati al rischio suicidario. Questi fattori vanno sempre indagati insieme alla storia familiare e ad altri elementi della storia personale che possono evidenziare un rischio suicidario ma, è importante ripeterlo, non è dimostrato che siano gli stessi per un omicida di massa come in questo caso.

Ma se invece passasse, tra le righe dei commenti su questa vicenda, un'idea del genere, ovvero che un depresso è un assassino in potenza, non rischieremmo di condannare la depressione e i disturbi psichici in un ghetto ancora più profondo? Se una persona che percepisce di soffrire di depressione, cosa certo non rara, dovesse temere di perdere il lavoro, non sarebbe per questo disincentivata a curarsi, ad affrontare il disagio e quindi a migliorare la sua situazione? E un incentivo a isolarsi nel timore di nuocere al prossimo?

La depressione e in generale le malattie psichiatriche sono molto simili alle malattie cardiovascolari, producono un elevato livello di disabilità solo se vengono trascurate, mentre se prese in tempo sono compatibili con una vita sociale e lavorativa normale. Non c'è niente di più lontano da un assassino di un depresso, almeno nell'accezione classica, anche diagnostica, che abbiamo sempre inteso dare a questo termine. La depressione nella sua espressione clinica più frequente si manifesta con affaticabilità, rallentamento, perdita di energia psichica e motoria. Un gesto come quello di questo pilota ha richiesto, invece un'enorme quantità di energia, di concentrazione, di folle lucidità che sono totalmente in contrasto con le forme depressive di cui soffrono la stragrande maggioranza degli esseri umani. La depressione di cui stiamo parlando, se di depressione si tratta, è più simile a una forma delirante, ovvero mista perché ricca di elementi psicotici che la fanno piuttosto assomigliare ad un eccitamento, che è esattamente l'opposto della depressione.

Ne parlava anche il suo articolo su Formiche: negli anni è cambiato il concetto di malattia mentale, grazie ai nuovi studi nel campo delle neuroscienze, mentre ad essere rimasta indietro è la percezione dell'opinione pubblica. C'è, nella visione più diffusa, quello cui "ha dato di volta il cervello" a seguito di fattori esterni, e il "pazzo" che porta con sé una malattia mentale congenita. Ma forse anche chi conduce le inchieste non riesce a uscire dalla dicotomia tra cause esterne (il "movente" del disturbo, come del delitto) ed endogene, senza riconoscere la complessità, le sfaccettature e la variabilità dei disturbi psichici.

Anche questo è un mito da sfatare ed è forse il più importante, il più resistente nella percezione collettiva. La cultura scientifica sembra mancare anche nell'informazione che porta avanti la tradizione del giornalismo di cronaca e che manca di metodo scientifico di approfondimento. La follia non è un fenomeno acuto, improvviso, che si manifesta con sintomi e segni di portata evidente in un altrimenti pieno benessere. Se si escludono le intossicazioni volontarie da sostante psicotomimetiche come la cocaina e le amfetamine, la malattia mentale è il risultato visibile, diciamo fenomenico, di una sofferenza lenta, cronica di lunga o lunghissima durata che emerge solo e soltanto quando i sistemi di equilibrio e di contenimento emotivo interiori non riescono più a compensarla. Al di là dalle speculazioni sulla diagnosi, questo ragazzo – oggi iniziamo a scoprirlo – era malato da anni e mal curato da tantissimo tempo. L'unico insegnamento che mi pare si possa trarre è che, come per tutto il resto della medicina, quando arriva il momento nel quale i sintomi sono tanto eclatanti non possiamo far altro che prendere atto che è finito, purtroppo, il tempo della prevenzione ed è giunto quello delle cure.