Breve viaggio alla ricerca dell’ottimismo: l’istinto di sopravvivenza che ci consente di crescere ed innovare, ma che non riusciamo ad applicare alla dimensione pubblica. Tranne in qualche caso.

«Risposarsi è il trionfo della speranza sull'esperienza». L'aforisma di Samuel Johnson è del 1721, ma quasi tre secoli dopo la scienza gli ha dato ragione: più delle esperienze pregresse nella vita di un individuo conta la fiducia nel futuro. Nella prossima, personale, chance. Nel mondo occidentale la percentuale di divorzi è circa del 40%, eppure chi si prepara ad andare all'altare lo fa sempre con la stessa convinzione: sarà per sempre. «Ognuno di noi sopravvaluta la probabilità di fare esperienze positive nella propria vita e a sottovaluta quella di viverne di negative – spiega Tali Sharot, direttrice dell'Affective Brain Lab dell'University College of London e autrice del saggio Ottimisti di natura. Perché vediamo il bicchiere mezzo pieno (Apogeo, 2012, 218 p.) - Sottostimiamo la probabilità di ammalarci di cancro, di vivere un divorzio e sovrastimiamo la nostra longevità, le prospettive di carriera. In poche parole: siamo più ottimisti che realisti, ma non ne siamo consapevoli». Ecco quindi come guardiamo la nostra vita: con le lenti rosa dell'ottimismo, «una illusione cognitiva – scrive Sharot – che riguarda l'80% degli individui».

Il nostro cervello, insomma, ci illude e lo fa per un buon motivo. Secondo il biologo dell'Università della California Ajit Varkil, infatti, la consapevolezza della morte avrebbe portato l'evoluzione umana a un vicolo cieco - al contrario, invece, di Steve Jobs che la riteneva il più grande motore di innovazione. Che piega avrebbero preso, in sostanza, la ricerca scientifica, la filosofia, la religione se l'uomo avesse vissuto nel terrore della propria fine? Per questa ragione, per consolarci e spingerci al progresso, la capacità di immaginare il futuro – e con esso la nostra, personale, scomparsa – s'accompagna a quella che Sharot chiama l'illusione ottimistica. «L'abbinamento tra capacità di prevedere il domani – scrive la scienziata – e l'ottimismo ha portato l'umanità a grandi traguardi». E ha spinto, per esempio, i nostri antenati a uscire dalla propria tribù per andare in esplorazione, o ci motiva, oggi, a sostenere battaglie in nome dei nostri figli.

Non solo, però, l'ottimismo ha radici biologiche – riduce stress, ansia e migliora la salute mentale e fisica – e basi neurologiche – più, infatti, una persona è ottimista maggiore è la connessione tra l'amigdala, struttura situata nelle profondità del cervello, e la corteccia cingolata rostrale, area frontale che modula specifiche attività cognitive – ma funziona anche come una seduta in palestra. Fa bene al cuore. Secondo un gruppo di ricercatori dell'Harvard School of Public Health, infatti, esiste una continuità tra benessere psicologico e minore rischio di infarto. L'ottimismo, la soddisfazione personale e la felicità, ha spiegato Julia Boehm, coordinatrice del team di scienziati, avrebbero un ruolo simile a fattori come l'età, lo status socioeconomico, l'abitudine di fumare o la tendenza ad ingrassare. «Le persone più ottimiste – ha concluso – hanno all'incirca il 50% di rischio in meno di avere problemi cardiaci rispetto a chi è più pessimista». E non si tratta di benefici limitati alle persone più giovani o ai paesi più ricchi. Se, infatti, Tali Sharot per descrivere i risultati di una indagine specifica (D. M. Isaacowitz Correlates of well-being in adulthood and old age: a tale of two optimisms, Journal of Research in Personality, 2005) scrive: «Indossiamo lenti rosa a otto come a ottanta anni», lo scorso Aprile nel Journal of Personality uno studio sentenziava: l'ottimismo è universale. Matthew W. Gallagher, autore della ricerca, insieme ai propri colleghi ha analizzato test somministrati in 142 nazioni su un campione totale di 150.048 persone. La maggior parte delle quali condividono una comune tendenza: pensano positivo.

L'ottimismo, quindi, fa stare tutti bene? No, secondo Sharot, e non perché è un inganno – del quale, proprio come una illusione ottica, non ci accorgiamo nemmeno nel momento in cui ne conosciamo la falsità. I rischi dell'ottimismo sono infatti molteplici: incapacità di pianificare le risorse e di considerare tutte le conseguenze di una scelta, tendenza a valorizzare in modo errato le proprie competenze. Tutti pericoli di cui potersi far carico, però, alla luce dei tre grandi vantaggi derivati dall'aspettarsi un futuro migliore. Il primo: l'ottimismo cambia la realtà soggettiva, non solo il modo in cui la vediamo. «Agisce – per Sharot – come una profezia che si auto-avvera». Funziona, insomma, come una predizione che influenza l'evento che predice. Secondo: migliora l'apprendimento. Chi ha basse aspettative, infatti, non riflette sulle ragioni di un fallimento perché in qualche modo già se lo aspetta e quindi non migliora le proprie abilità mettendosi in gioco. Terzo: l'ottimismo ci regala il piacere del venerdì. Quando infatti aspettiamo il fine settimana, o un evento futuro positivo, cominciamo a gustarlo da prima, viviamo un tempo sereno più lungo.

Perché, allora, se immaginiamo il futuro della nostra nazione, se riflettiamo sulle opportunità di chi è più giovane, non siamo più così positivi? I dati Istat sulla disoccupazione giovanile non bastano a spiegare il pessimismo pubblico, rivolto, cioè, alla comunità di appartenenza. L'ottimismo è infatti, nelle parole di Sharot, un pregiudizio, una illusione cognitiva e funziona indipendentemente da dati, fatti, ragioni concrete. Ha, però un limite. È personale. «Su 4 cittadini britannici – si legge in Ottimisti di natura – tre hanno dichiarato di essere speranzosi riguardo al futuro delle proprie famiglie. Rappresentano il 75% della popolazione. Solo il 30%, però, ha detto di pensare che le famiglie in generale stanno meglio ora di qualche generazione fa. Succede perché siamo ottimisti su noi stessi, sui nostri figli, sulle nostre famiglie, ma non siamo così ottimisti sul tizio che ci sta seduto accanto e siamo in qualche modo pessimisti sul destino dei nostri concittadini e su quello del nostro paese».

C'è una ragione, insomma, se la scritta “il fumo uccide” sul pacchetto di sigarette riguarda sempre il nostro vicino di casa. Deborah Mattinson, fondatrice di Britain Think, agenzia di consulenza strategica per la politica, al convegno della Royal Society of Arts del 2008 l'ha spiegata così: gli individui sono più positivi rispetto alle cose che pensano di controllare. Per questo credono di poter smettere di fumare quando vogliono, di riuscire a sterzare il volante prima di fare un incidente, di trovare una occupazione migliore quando perdono il lavoro. L'ottimismo funziona, quindi, come un vero pregiudizio: lo riconosciamo solo negli altri. Per esempio, sappiamo dire se qualcuno esprime una opinione razzista, ma non riusciamo a farlo rispetto alle nostre convinzioni perché crediamo di poter ricostruire, tramite l'introspezione, tutti i processi alla base delle nostre idee. Invece non è così. È il cervello che ci inganna. E lo fa per il nostro bene.

C'è un modo, però, di trasformare il pessimismo pubblico in speranza? Tali Sharot, raggiunta telefonicamente da Strade, è convinta di sì. «È complicato – spiega – perché le persone sanno di non poter controllare la situazione economica, la finanza, le politiche scolastiche o quelle per ridurre il crimine. Quello che la politica può fare, però, è far sentire i cittadini più coinvolti nei processi decisionali, per dar loro la sensazione di contare, di partecipare davvero». È quello che è accaduto, per esempio, con Barack Obama nel 2008. Nel pieno di una delle più pesanti crisi economiche, mentre gli Stati Uniti vivevano ancora con la paura del terrorismo in casa, i cittadini americani hanno dimostrato uno dei più alti tassi di ottimismo da sempre.

Le persone, insomma, nei momenti peggiori della storia del proprio paese non hanno bisogno di Cassandre ma di Shirley Temple. Qualcuno che li rassicuri, dia loro fiducia e li aiuti a sentire la propria comunità come una famiglia. Destinata ad indossare stupendi occhiali rosa – e, magari, a mantenerli nel tempo appoggiati sul naso.