Terzi in Europa per numero di imprese, ultimi per numero di addetti e capacità di accesso ai finanziamenti. Storia, prospettive e contraddizioni di un settore in attesa di un domani.


Le biotecnologie sono il futuro, sono circa vent’anni che ce lo dicono. Sono due decenni, o quattro lustri, in cui le scienze della vita appaiono in tutti i documenti ufficiali come uno degli ambiti in cui investire per creare occupazione qualificata, migliorare la qualità della vita e in ultima analisi portare benessere al nostro Paese. In effetti, il comparto industriale biotecnologico italiano, secondo il rapporto Ernst&Young e Assobiotec oggi annovera ben 407 imprese, è il terzo in Europa, almeno per numero di aziende. All’apparenza si direbbe che ricercatori e industria abbiano creduto nella promessa delle biotecnologie. Tuttavia, e c’è sempre un tuttavia, anche se numericamente vantiamo il terzo posto in Europa, il settore, per numero di addetti e capacità di accesso ai finanziamenti (pubblici e privati) è una cenerentola rispetto ai concorrenti internazionali, specialmente Regno Unito, Germania e Svizzera, che giocano in contesti politico-istituzionali, ma anche culturali, diversi dal nostro. 



Il gioco delle tre leve. Tre sono le principali leve a disposizione dei policy-maker per aiutare lo sviluppo e sostenere la crescita di un settore: il finanziamento della ricerca, anche quella applicativa, il supporto di iniziative regionali e nazionali mirate alla creazione di valore aggiunto a partire dai suoi risultati, e l’alleggerimento della pressione fiscale e burocratica sulle imprese. Come queste leve siano state usate in Italia lo sappiamo, e i risultati lo mostrano chiaramente. Capirne i perché è più difficile, soprattutto a causa della mancanza di dati certi e tra loro confrontabili, come spesso accade in questi casi.

Allevare la ricerca. È possibile svolgere alcune riflessioni partendo da un documento pubblicato dall’UE questa estate: il sesto, e penultimo, report di monitoraggio del Settimo Programma Quadro (7° PQ, box 1), lo strumento con cui l’Unione Europea integra i fondi di ricerca dei diversi Stati Membri. Le biotecnologie, nel 7° PQ, hanno giocato un ruolo di primo piano grazie alla loro trasversalità [1],  che le ha rese protagoniste all’interno di diversi strumenti di finanziamento [2].

Dal rapporto risulta che negli ultimi sei anni (escluso il 2013) l’UE ha emanato 379 bandi che hanno raccolto circa 103.000 proposte progettuali di cui 20.000 finanziate per complessivi 35 miliardi di euro [3]. Non poco, visto che l’UE non si sostituisce, ma si aggiunge a quanto gli stati stanziano per la ricerca. Per misurare il successo di uno strumento di finanziamento è importante però capire quale sia il ritorno di questi investimenti. I numeri sono importanti: dai 3.220 progetti di ricerca portati a termine fra il 2007 e i 2012 sono scaturite oltre 16.000 pubblicazioni scientifiche (una media di quasi 5 pubblicazioni per progetto finanziato), e 500 brevetti (1 ogni 32 pubblicazioni) [4], una chiara indicazione di come questi strumenti servano più a costruire una base comunitaria condivisa che a creare direttamente valore. Una base su cui i singoli paesi possano poi sviluppare progetti nazionali.

Resta in ogni caso da chiedersi quali siano le performance del nostro di paese nella corsa ai finanziamenti europei. La risposta, purtroppo, è: non esaltanti. Anche su questo fronte, si conferma la distanza dai top player europei. Il tasso di successo dei nostri centri è significativamente inferiore a quello delle loro controparti belghe, olandesi, francesi e tedesche. Noi stiamo in terza classe, seduti tra la Slovacchia e la Bulgaria, e ben al di sotto della Spagna e della media europea. Non mancano comunque eccellenze degne di nota. Il nostro CNR, ad esempio, è terzo in Europa per finanziamenti ricevuti. Dal punto di vista accademico, la prima università italiana è Bologna, che si colloca però solo al 31esimo posto. È da notare come, nelle prime venti Università per entità di finanziamenti ricevuti, ben dieci siano britanniche.



Sul fronte del finanziamento nazionale alla ricerca la situazione non migliora. La Strategia di Lisbona aveva indicato per i paesi europei l’ambizioso obiettivo del 3% del PIL entro il 2010: oggi, complici politiche non sempre lungimiranti e la crisi economica, l’OCSE ci dice che l’Italia è ferma all’1.26%  nel 2010 (circa 25 miliardi di euro) la metà della media OCSE e il contributo da privati non va oltre il 50%. Eppure dovrebbe essere una priorità, come evidenziato anche da una analisi condotta dal Russell Group  inglese, il ritorno dei soldi pubblici spesi in R&S porta a ricavi nell’ordine del 30% su quanto investito [5]. Sulla stessa linea i dati  presentati dalla Commissione Europea, che indicano un impatto a lungo termine del 7° PQ sia in sul fronte della crescita del PIL e delle esportazioni, ma anche sulla creazione di 900mila posti di lavoro, di cui solamente un terzo nel campo della ricerca [6].

Allevare nuove imprese. È vero, la raccolta fondi in Europa e il supporto nazionale alla ricerca non paiono esaltanti, sia in termini di risorse stanziate che di certezza della loro disponibilità reale, come ci ricorda, in maniera molto indicativa, il taglio lineare di 30 milioni di euro al Fondo di Finanziamento Ordinario delle Università imposto nel 2008 dal cosiddetto decreto “salva-Alitalia”, ad anno accademico pressoché iniziato. Tuttavia, ciò non significa che non esistano questioni aperte anche a valle della ricerca. Se nessuno investe nelle nostre biotecnologie c’è un evidente problema di attrattività del settore che sconta almeno tre problemi che nascono da una distanza culturale prima ancora che tecnologica tra quello che lo sviluppo delle biotecnologie necessita e quello che a esse può offrire il paese.

  1. Le biotecnologie hanno un orizzonte globale e le imprese biotech non possono essere da meno. Purtroppo molte, troppe realtà nostrane presentano invece una scarsa internazionalizzazione e soprattutto mancano di adeguate capitalizzazioni [7].
  2. Le biotecnologie sono innanzitutto applicazione, sono per definizione prodotto industriale nato dalla ricerca. L’accademia italiana è però cresciuta con il valore della non contaminazione con il mondo della produzione. Questo non solo non ha permesso di sviluppare competenze manageriali nei ricercatori, ma soprattutto ha portato all’impossibilità di dialogo fra ricercatori e imprenditori in quanto appartenenti a cerchie non intersecanti [8].
  3. Le biotecnologie necessitano di capitale di rischio che nel mondo vede investitori specializzati, investitori che in Italia stentano a nascere e a crescere [9].

Queste carenze strutturali non solo convivono pericolosamente tra loro, ma devono anche fare i conti con l’architettura istituzionale del paese che fatica a implementare sistemi di valutazione e di premialità del merito, a definire politiche della ricerca nazionale coerenti con le strategie europee e, quando vi riesce, a rispettarli, oltre che a offrire certezze sui finanziamenti che eroga sia in ordine ai tempi che ai modi. Per non parlare di una fiscalità che non ha paura di tassare anche gli investimenti in R&D e del ritardo cronico nell’adozione di normative europee, spesso e volentieri stravolgendole [10].

Passi lunghi e ben distesi. Se i numeri non sono brillanti, e le criticità non mancano, questo non significa che non sia possibile fare qualcosa per ovviarvi. Uno degli strumenti che potrà contribuire non poco ad affrontare molti di questi aspetti in modo razionale saranno i Cluster Tecnologici Nazionali voluti dall’allora ministro Profumo. Proprio lo scorso 13 ottobre il ministro Carrozza ha firmato il decreto che stanzia 266 milioni di euro per il finanziamento di 8 Cluster Tecnologici, finalizzati alla creazione di modelli di aggregazione pubblico-privata, con una forte collaborazione fra impresa e ricerca. Serviranno a finanziare trenta progetti di ricerca in aree tecnologiche strategiche per il sistema Paese [11] e a cercare di superare la distanza fra la ricerca e l’impresa, e per costruire una nuova cultura basata sull’innovazione capace di competere in Europa. I cluster costituiranno infatti una piattaforma importante anche per affrontare il nuovo programma quadro per la ricerca, Horizon 2020  (box 2), che partirà il prossimo 11 dicembre, e che sarà sì più ricco, 70 miliardi di euro, ma anche molto più competitivo.

Un altro segnale positivo viene dalla Regione Lombardia che ha deciso, l’11 ottobre scorso, di azzerare l’IRAP per le start-up innovative. Un primo passo verso il riconoscimento del valore sociale delle imprese che trasformano la ricerca in innovazione. Molto ancora c’è da fare, anche sul fronte normativo, ma una strada almeno l’Italia ora l’ha tracciata, non resta che percorrerla a passi lunghi e ben distesi. Siamo rimasti indietro, vediamo di recuperare e di mantenere le promesse che abbiamo fatto.


Note

1- Con biotecnologie si fa riferimento a tutte quelle tecnologie che usano esseri viventi o loro componenti per produrre beni o servizi. Gli ambiti di applicazione sono pertanto i più vari, dal cibo alla salute, dalla cosmetica all’ambiente.
2- Ad esempio i KBBE per l’area agro-alimentare ma anche ambiente e industria, l’HEALTH per il settore biomedico e delle scienze della vita, i CAPACITIES per le PMI, oltre ai MARIE CURIE, PEOPLE e IDEAS, rivolti alla ricerca di base, all’eccellenza scientifica e alla mobilità dei ricercatori.
3- I progetti presentati hanno coinvolto un totale di oltre 485.000 tra istituzioni e ricercatori (alcuni strumenti sono diretti ai singoli e non a gruppi di ricerca).
4- Questi numeri sono comunque destinati a crescere fino al 2018 quando si chiuderanno i progetti ancora in corso.
5- Per il sistema anglosassone, ad esempio, i dati dicono che per ogni 1£ di investimento pubblico in ricerca medica si è ottenuto un beneficio complessivo quantificabile in 0.39£ per anno.
6- EUROPEAN VALUE ADDED - KEY WAYS IN WHICH EUROPE ADDS VALUE TO EUROPEAN CITIZENS AND MEMBER STATES  June 2011,  Bureau of European Policy Adviser. Indica nello 0.96% l’aumento del PIL europeo, con un incremento dell’1.57% nelle esportazioni e una riduzione dello 0.88% delle importazioni.
7- Non mancano imprenditori visionari, come Mossi e Ghisolfi che in questi giorni ha inaugurato una bioraffineria di nuova concezione con un investimento di 150 milioni di euro, o come Dompè, Chiesi o Menarini nel settore biomedico e farmaceutico, ma restano ancora mosche bianche.
8- Esistono eccezioni importanti come ad esempio il Parco Tecnologico Padano di Lodi o alcuni incubatori e acceleratori che costituiscono momenti e luoghi di dialogo tra il mondo della ricerca e quello dell’impresa, ma sono ancora troppo pochi e sottoutilizzati oltre che, in molti casi, alla ricerca di un modello di sostenibilità.
9- Anche in questo caso esistono singolarità interessanti, come ad esempio Banca Intesa che da anni collabora con Assobiotec o fondi come TT Venture o l’associazione dei Business Angels italiani, IBAN, che però restano eccezioni in un panorama creditizio ancora fortemente improntato sulla realtà manifatturiera di vecchia generazione.
10- Emblematici i casi delle normative sugli OGM (Direttiva 2001/18), sulla Sperimentazione Animale (Direttiva 2010/63) e sul brevetto biotecnologico (Direttiva 98/44), ma molti altri sono i casi in cui un mancato recepimento compromette lo sviluppo di nuove applicazioni e anche solo la ricerca in specifici campi.
11- Fabbrica Intelligente, Chimica verde, Scienze della Vita, Mezzi e sistemi per la mobilità, Agrifood, Aerospazio, Tecnologie per le Smart Communities, Tecnologie per gli ambienti di vita,
12- Due pillar principali: l’impatto sociale della ricerca d’eccellenza e la ricerca applicata per promuovere la leadership industriale.


 

Box 1: Cos’è il Settimo Programma Quadro

I programmi quadro (PQ) sono i principali strumenti finanziari dell’Unione Europea per incentivare le attività di ricerca e sviluppo inerenti tutte le discipline scientifiche, dalle scienze sociali alla medicina, dall’agroalimentare alla fisica e al nucleare. I PQ stanziano un finanziamento, negoziato ogni settennato all’interno del Bilancio dell’Unione Europea, che integra, ma non sostituisce, i fondi nazionali, che dovrebbero essere la principale fonte economica per la ricerca. La scelta di adottare dei piani pluriennali di finanziamento alla ricerca risale al 1984, ma una reale politica unitaria della ricerca si è potuta avere dagli inizi anni 2000. Con gli ultimi bandi di questo autunno, si chiude nel 2013 il 7° PQ, che ha indirizzato e finanziato la ricerca nel quinquennio 2007-2013. Scopo del 7° PQ, con i suoi 50 miliardi di euro dedicati dalla Commissione Europea, era di creare le basi per la creazione di uno Spazio Europeo della Ricerca, per realizzare lo sviluppo dell’economia della conoscenza in Europa.


Box 2: Cos’è Horizon 2020

Horizon 2020 è il nuovo strumento di finanziamento per la ricerca e l'innovazione lanciato dall’Unione Europea nel settennato 2014-2020, e sostituirà il 7° PQ. Rispetto a quest’ultimo, Horizon 2020 avrà un budget più cospicuo, di circa 70 miliardi di euro, e si prefigura come uno degli strumenti identificati dalla Commissione Europea per creare crescita, competitività e nuovi posti di lavoro in Europa. Per raggiungere questi ambiziosi obiettivi, Horizon 2020 risponde alla strategia denominata Europa 2020, che ha lo scopo di rendere l’Europa il luogo dell’eccellenza scientifica internazionale, rimuovendo gli ostacoli all’innovazione che oggigiorno impediscono alle idee più brillanti di raggiungere il mercato creando valore economico. A differenza del 7° PQ, infatti, il focus di Horizon 2020 è fortemente applicativo e orientato alle implicazioni industriali e socio-economiche della ricerca finanziata dai fondi europei.