La "brutta Italia": una dannosa distorsione che si continua colpevolmente a reiterare, con il risultato che il Belpaese assiste allo sbriciolamento di tanti suoi monumenti, distrutti da una incuria diffusa. Materiale e mentale. Mentre l’abusivismo, l’illegalità creano le premesse per il verificarsi di tragedie naturali.

 

«Il castello dell'innominato era a cavaliere a una valle angusta e uggiosa, sulla cima d'un poggio che sporge in fuori da un'aspra giogaia di monti, ed è, non si saprebbe dir bene, se congiunto ad essa o separatone, da un mucchio di massi e di dirupi, e da un andirivieni di tane e di precipizi, che si prolungano anche dalle due parti. Quella che guarda la valle è la sola praticabile; un pendio piuttosto erto, ma uguale e continuato; a prati in alto; nelle falde a campi, sparsi qua e là di casucce». E’ una delle descrizioni contenuta nei Promessi Sposi. L’affresco con il quale Manzoni celebra il Paesaggio nel quale si muovono le vicende dei suoi protagonisti. Uno scenario fatto di Natura e di realizzazioni umane. Un intreccio quasi inestricabile di storia e geografia, architettura e ingegneria, storia dell’arte e archeologia. Diremmo, diciamo, ora, Patrimonio. La nota distintiva del Paese del passato. Ma anche del presente. Anche se di questo “insieme” di elementi tipologicamente differenti sembra ormai essersi persa la complessità.

 

Da una parte i Beni materiali, dal Colosseo ai resti dell’Heraion a Capo Colonna, dal Castello di San Pietro di Ton in Val di Non, all’acquedotto di Termini Imerese. Dall’altra i Beni paesaggistici, dai colli dell’Esquilino e del Palatino a Roma, alle alture intorno a Termini Imerese. Da tempo si è prodotta una netta suddivisione, come dimostra l’esistenza di differenti Ministeri competenti. Con l’idea iniziale, forse, di mettere in campo una maggiore incisività nelle scelte e nelle proposte. Con l’esito, spesso assai deludente, di duplicare procedure e di appesantire gli aspetti burocratici. In sostanza, senza che i singoli settori ne avessero tangibili benefici. Una dannosa distorsione che si continua colpevolmente a reiterare, con il risultato che l’Italia assiste allo sbriciolamento di tanti suoi monumenti. Distrutti da una incuria diffusa. Materiale e mentale. Mentre l’abusivismo, l’illegalità creano le premesse per il verificarsi di tragedie naturali.

 

Pompei, che continua ad avere incerte prospettive. La Domus Aurea, a Roma, che a distanza di due anni dalla sua chiusura dopo il collasso di una struttura voltata, ancora attende la riapertura. Il Colosseo, sul quale solo da poco sono state avviate le operazioni assicurate da Della Valle. La necropoli etrusca della Banditaccia, a Cerveteri, uno dei siti archeologici più importanti della Terra, dichiarato nel 2004 patrimonio dell’umanità. Ma in stato di quasi abbandono. Ancora, la villa di Poppea, a Oplontis. Naturalmente, sfortunatamente, molto, moltissimo altro.  Accanto a questo patrimonio diffuso, lasciato alla deriva, i disastri perpetrati nei territori. Abusivismo edilizio, disattenzione nei confronti della morfologia e della idrografia. Con i guasti, i danni, le tragedie, che scaturiscono da quei comportamenti difformi. Monumenti e territori, le loro caratteristiche fisiche e naturali, uniti da un filo rosso. Le loro fortune e le loro sfortune in una relazione anche spaziale. I disastri di Sarno per certi versi legati a quelli di Pompei. Quelli di Genova e del Ponente ligure legati a quelli di Arpi, nel foggiano. Ma le “storie parallele” sono infinite. 

 

Inscindibile il rapporto tra aspetti diversi ma complementari del nostro “bello”. Un bello, tuttavia, la cui tutela risulta ancora difficoltosa. A dispetto degli strumenti legislativi esistenti. Senza contare che anche le recenti determinazioni sia in ambito nazionale che regionale, per quel che riguarda la pianificazione urbanistica ed il suo rapporto con il patrimonio storico-artistico-archeologico, non sembrano del tutto convincenti.  In tema di abusivismo edilizio gli strumenti normativi adottati sembrano inadeguati, non incidendo positivamente sul reiterarsi di nuovi abusi, non dissimili da quelli di Triscina di Selinunte (una frazione di Castelvetrano, fatta di 5mila unità immobiliari, tutte abusive, con le rovine di Selinunte ad un passo) o da quelli nella Valle dei Templi, dove la lotta all’abusivismo edilizio è stata quasi impalpabile. 

 

Storie diverse ma uguali, disseminate lungo il Paese. Storie di consumo di suolo, di spazio impermeabilizzato con nuove costruzioni. Parti sempre più grandi dei nostri territori urbanizzate, mentre singoli edifici, non di rado addirittura interi complessi, rimangono in abbandono, inutilizzati. Decenni di scriteriate politiche urbanistiche e ambientali, culturali e sociali hanno desertificato ampie porzioni dei territori italiani, desertificando le città dentro i loro confini, spesso anche nelle aree cosiddette di cintura. Hanno derubricato le “antichità” ad un intralcio alla realizzazione dell’illusoria idea di sviluppo, incardinata sull’edilizia. Da questo irresponsabile utilizzo del Paesaggio, inteso nella sua complessità, è nato e si è sviluppato il “brutto” del Paese: i tanti scempi frutto del divorzio tra tutela dell’ambiente e politiche urbanistiche. Alcuni esempi? Gli edifici industriali alle porte di tanti centri urbani, qualche volta al loro interno; le infrastrutture e strutture incompiute che deturpano il paesaggio; le seconde case costruite sul litorale di Diamante, nel tratto di costa tirrenica a sud di Maratea, come il grande parcheggio in una zona dove prima c’erano limoni e ulivi, nei pressi del canale che ha causato la frana del 2011, a Monterosso, nello spezzino; l’espansione di Acireale, in un’area prima coperta da limoneti; i due villaggi residenziali, alberghi, ristoranti, 11 bar, cinque piscine, 97 posti barca, un parcheggio con 800 posti auto, sulla costa di Baia Sistiana, a 20 chilometri da Trieste; il nuovo quartiere di Tor Pagnotta, a Roma, che si estende in una zona che doveva essere parco pubblico vincolato, attorno ad un complesso monumentale e paesaggistico. 

 

In un contesto generale così difficile nel quale spesso le risorse insufficienti sono diventate il pretesto per  programmi di corto respiro e di effetti irrilevanti, c’è la necessità di “fare”. C’è l’urgenza di sviluppare progetti seri che coinvolgano più ministeri, dipartimenti. C’è il bisogno di un’architettura e un’urbanistica che non siano una sorta di “mano armata” della politica, di un’archeologia che uscendo dal cono d’ombra nel quale hanno contribuito a relegarla certi atteggiamenti dei suoi stessi rappresentanti, diventi realmente pars costruens nel discorso sulla forma delle città e dei territori. Grandi opportunità se si avrà voglia di lavorarci, con la serietà che meritano.

 


I tanti numeri del paesaggio

Dare i numeri non deve essere un esercizio ma una sintesi, estrema, della situazione. Che a quanto si vede non risulta sempre agevole. Cambiando i punti di osservazione, l’impostazione iniziale. Come è emerso nel febbraio di quest’anno dall’Undicesima Conferenza Nazionale di Statistica dal titolo “Conoscere il presente. Progettare il futuro”, organizzata dall’Istat. Le diverse sessioni ed in particolare la relazione di Settis hanno proprio verificato le modalità di quantificazione dei dati relativi all’impatto dell’edilizia e delle infrastrutture sul paesaggio e al consumo di suolo. Così, proprio sul consumo di suolo si accavallano numeri spesso preoccupanti, incoerenti tra loro, talora anche confusi con la riduzione della Superficie agricola utilizzata. Così, allo stesso modo, sarebbe necessario misurare la necessità di nuove costruzioni in relazione alle esigenze abitative. Considerando fattori generalmente trascurati, come gli immobili suscettibili di riuso e il rapporto popolazione-edifici. Tuttavia, pur con queste “attenzioni”, è innegabile che la superficie impermeabilizzata, quindi non solo quella sulla quale ci sono delle costruzioni, sia ormai troppo grande. Secondo le stime dell’Associazione Italiana Tecnico Economica Cemento, in Europa per la produzione di cemento, relativamente al biennio 2010-2011, ci attestiamo in cima alla classifica (67.518 tonnellate), prima della Germania (64.370) e della Spagna (44.358). Secondo l’Istat dal 1990 al 2005 la superficie agricola utilizzata in Italia si è ridotta di 3 milioni e 663 mila ettari, un’area grande quanto Lazio e Abruzzo insieme. Sempre secondo l’Istat, nel decennio 2001-2011, di fronte a un incremento della popolazione stimato in un milione di nuclei famigliari, sono stati costruiti 1 milione e 571mila nuovi alloggi residenziali. Mentre secondo il Rapporto Ance-Cresme dell’ottobre 2012, il 6,6% della superficie italiana è collocato in frana, il 10% è a elevato rischio idrogeologico e il 44% a elevato rischio sismico. Tra molti numeri, diluiti tra classifiche e rapporti, una certezza. Lo sviluppo va trovato in un’altra parte rispetto a dove lo si è cercato fin’ora.