La demografia ci spiega come i giovani, oggi, siano sempre più una “risorsa scarsa”. Nonostante questo le opportunità per loro si sono sempre più ridotte, a causa della crisi economica e della necessità di adeguare il sistema pensionistico all’incremento della sopravvivenza. Una situazione che potrà essere superata solo con nuovi, robusti incrementi dell’offerta di lavoro.

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Le grandi scelte di politica economica dovrebbero tener conto dei cambiamenti demografici, in primo luogo di quelli che riguardano i rapporti numerici fra le generazioni.

Nel mondo d’oggi, le differenze più profonde sono quelle fra i paesi poveri, i paesi in transizione e quelli di ricchezza consolidata. Confrontiamo l’Africa sub-sahariana, la Cina e l’Europa (figura 1). Nell’Africa sub-sahariana il 53% della popolazione ha meno di 20 anni, più del doppio rispetto all’Europa e alla Cina. Per contro, in Europa gli ultrasessantenni sono il 24% del totale, contro il 18% della Cina e il 4% dell’Africa sub-sahariana. Da un punto di vista economico, la situazione più favorevole è quella della Cina, dove il 61% della popolazione è in piena età lavorativa (20-59), mentre le “bocche da sfamare” (età 0-19 e 60+) sono solo il 39%. Questa “finestra di opportunità demografica” si sta però chiudendo, perché anche nel grande paese asiatico gli anziani nei prossimi anni – a meno di disastri imprevedibili – aumenteranno rapidamente, come già sta accadendo in Europa. La definizione di “vecchio continente”, stando alle previsioni delle Nazioni Unite, sarà sempre più appropriata: in appena trent’anni gli ultra-ottantenni europei quasi raddoppieranno, passando dai 35 milioni del 2015 ai 68 milioni del 2045, e gli ultra-centenari quasi quadruplicheranno, passando da 111 mila a 432 mila.

Queste enormi differenze e questi enormi cambiamenti dovrebbero essere sempre tenuti in conto. Se nei paesi africani gran parte della popolazione è composta da bambini e da adolescenti, è evidente che – per evitare disastri – è necessario costruire in loco opportunità di lavoro. Se in Europa gli anziani raddoppieranno nel breve giro di una generazione, è evidente la necessità di iniziare a costruire, fin da ora, sistemi socio-sanitari e pensionistici sostenibili, e così via.

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Lasciamo sullo sfondo i grandi scenari mondiali e concentriamoci sul cortile di casa, considerando gli ultimi 40 anni della demografia Italiana (figura 2). Un indicatore molto efficace per misurare il rapporto fra le generazioni si ottiene dividendo la popolazione in età 55-64 (i lavoratori appena pensionati o sulla soglia della pensione) con i giovani in età 15-24 (che si affacciano sul mondo del lavoro). Questo indice del ricambio del mercato del lavoro vale uno se ogni neo pensionato viene “sostituito” da un nuovo potenziale lavoratore. Negli anni ’70 del secolo scorso in Italia c’erano 150 potenziali lavoratori ogni 100 neo pensionati. Ma a partire dagli anni ’80 il rapporto inizia rapidamente a diminuire, raggiungendo il valore uno all’inizio del nuovo secolo, e continuando a calare anche negli anni successivi. Oggi in Italia i potenziali lavoratori sono appena 75 ogni 100 neo pensionati, ossia la metà rispetto a quarant’anni fa.

Come mai, allora, i nostri giovani non sono inondati da offerte di lavoro, anzi spesso varcano la frontiera per cercare lavoro all’estero? Come si vede in figura 2, fino al 2008 le cose non sono andate così: a mano a mano che l’indice di ricambio diminuiva, il saldo migratorio con l’estero aumentava, diventando positivo all’inizio degli anni ’90 ed “esplodendo” nei primi anni del XXI Secolo. Gli anni in cui la disoccupazione si è dimezzata, raggiungendo il minimo del 6% nel 2007.

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Nell’ultimo decennio, malgrado la demografia per loro potenzialmente favorevole, i giovani sono stati penalizzati dalla combinazione di due eventi: l’incremento della disoccupazione e l’accelerazione della messa a regime del sistema pensionistico (legge Monti-Fornero di fine 2011). La crisi, nel breve giro del quinquennio 2008-13, ha distrutto milioni di posti di lavoro, mentre nello stesso tempo è continuamente aumentato il tasso di occupazione degli over 55 (figura 3). La combinazione fra demografia, disoccupazione e nuove leggi pensionistiche ha “sconvolto” la struttura per età del mercato del lavoro italiano, che nel 2016, rispetto al 2007, pur contando lo stesso numero di lavoratori, aveva un milione e mezzo in più di lavoratori maturi (55+), 900 mila lavoratori in meno in età giovanile (15-29), e 750 mila lavoratori in meno in età centrale (30-54).

Questi risultati non debbono suonare come atto d’accusa verso la legge Monti-Fornero, che ha messo in sicurezza i conti dello Stato e ha permesso di recuperare ritardi decennali, tanto che ancora oggi la proporzione di lavoratori maturi, in Italia, è inferiore rispetto a quella della maggior parte dei paesi OCSE. L’accusa va semmai girata agli esecutivi che hanno preceduto il Governo Monti (e alla società che li ha ispirati), che non hanno avuto il coraggio di adeguare il sistema pensionistico ai continui incrementi della sopravvivenza. Tuttavia, è importante considerare quanto è accaduto con il necessario realismo, altrimenti non si può comprendere perché, malgrado oggi gli occupati siano tornati a livello pre-crisi, la disoccupazione sia ancora doppia rispetto al 2007, e quella giovanile non riesca a scendere al di sotto del 30%.

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L’incremento della disoccupazione degli anni 2008-14 ci fa anche comprendere come mai, malgrado il rapporto di sostituzione del mercato del lavoro sia costantemente inferiore all’unità e tendenzialmente calante, il saldo migratorio sia quasi tornato a zero. Come si vede in figura 4 (lo zoom di figura 3 per l’ultimo decennio) nel periodo 2007-2016 il tasso di disoccupazione e il saldo migratorio hanno avuto un andamento speculare: quando il primo aumentava, il secondo diminuiva, mentre la leggera diminuzione della disoccupazione dell’ultimo biennio non è ancora riuscita a invertire questa tendenza.

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In conclusione, nel corso degli ultimi quarant’anni i giovani sono diventati una “merce sempre più rara”. Tuttavia, nel corso dell’ultimo decennio, le possibilità per loro in Italia non sono state molto favorevoli, perché le opportunità di lavoro sono state relativamente scarse, a causa della crisi economica e della necessità di adeguare il sistema pensionistico all’incremento della sopravvivenza. Questa situazione potrà essere superata solo con nuovi, robusti incrementi dell’offerta di lavoro.

Nel corso dell’ultimo anno le cose non sono andate male perché, fra il terzo trimestre del 2016 e il terzo trimestre del 2017, gli occupati sono cresciuti di 303 mila unità (+1,3%), con una crescita del PIL dell’1,7%. La crescita del tasso di occupazione è stata interessante a tutte le età: +0,7% (15-24), +1,4% (25-34), +0,6% (25-49), +1,0% (50-64) [Nota: Dati Istat]. Tuttavia la sfida è molto difficile. Infatti, malgrado i lavoratori giovani e anziani non siano fra loro del tutto fungibili, per i prossimi anni i lavoratori maturi rischiano di rallentare sensibilmente l’accesso al mercato del lavoro dei lavoratori più giovani. Del resto non è opportuno – per far posto ai giovani – scardinare l’equilibrio del sistema pensionistico, generalizzando la concessione di pensioni anticipate non onerose, perché si aprirebbero grosse falle sul bilancio dello Stato.

Non ci sono quindi scorciatoie. Nel quinquennio 2016-21, solo creando 350 mila nuovi posti di lavoro all’anno (difficilmente ottenibili se il PIL non cresce almeno del 2% l’anno), i tassi di occupazione dei giovani e degli uomini in età centrale si accosteranno ai livelli precedenti la crisi, mentre i tassi di occupazione delle donne in età centrale potranno avvicinarsi a quelli dei più avanzati Paesi europei. Di questo, e non di sacchetti, canone RAI o tasse universitarie, dovremo occuparci durante questa campagna elettorale.