Il TTIP sarebbe stato un accordo vantaggioso per l’Europa, ma è stato ucciso dalla pressione mediatica e populistica che ha spaventato gli Stati membri, inducendoli a rinnegare nei fatti un mandato a negoziare che avevano già dato.

Marazzi ponte

C’era un tempo in cui la liberalizzazione del commercio internazionale veniva vista quasi unanimemente come un potente stimolo alla crescita economica nei paesi sviluppati e come una chance offerta ai paesi meno sviluppati per superare la loro condizione di povertà.

C’era anche un tempo in cui i trattati commerciali, sempre tecnicamente complessi, venivano negoziati da team altamente specializzati in rappresentanza delle parti contraenti, sulla base (almeno nelle democrazie) di un mandato ricevuto da organi eletti, e, successivamente, sottoposti a revisione finale e ratifica da parte degli stessi organi eletti. L’opinione pubblica era informata normalmente a cose fatte, pur potendo seguire gli sviluppi sui rari giornali e riviste che se ne occupavano (anche se, diciamocelo, quanti conoscevano, o conoscono, per esempio i dettagli degli accordi di accesso della Cina al WTO? O i contenuti dell’accordo UE-Corea?). Ovviamente qualche ONG poteva fare una campagna contro o a favore un aspetto specifico di quanto veniva negoziato, ma queste campagne raggiungevano solo persone già interessate all’argomento.

Questo tempo era meno di 6 anni fa. Cosa è successo dopo?

In realtà qualcosa era già successo “prima”. Il “popolo di Seattle”, dal 1999, si era ripresentato puntualmente ad ogni riunione del WTO e ad ogni G7 o G8, per far sentire la propria opinione sui “danni” della globalizzazione. Questo popolo però veniva perlopiù considerato dall’opinione pubblica nei paesi sviluppati come un qualcosa di folcloristico, i “soliti estremisti” anti-tutto, mentre il mondo politico ed economico restava fermamente in favore di più liberalizzazione e più apertura.

Questo approccio è entrato in crisi fondamentalmente dopo la crisi dei mutui subprime (che, per inciso, non c’entra nulla con l’importazione di pantofole dalla Cina o di calzini dal Messico) e l’effetto domino che essa ha avuto sulle economie degli altri paesi. La crisi dell’Euro e quella economica conseguente, con l’aumentare della disoccupazione, hanno ridato voce possente a chi ritiene che l’integrazione delle economie sia andata troppo avanti, che solo le multinazionali (confuse a volte nella vulgata popolare con la “finanza”) ne beneficino veramente e che “free trade” significhi automaticamente disoccupazione. Immediatamente l’esistenza di negoziati commerciali tra paesi è diventata tema da prima pagina, da trasmissioni televisive dedicate in prima serata, con la semplificazione tipica e forse inevitabile di questi mezzi, che tutti abbiamo visto e patito.

Se da un lato probabilmente dovremo imparare a vivere con questo nuovo mondo, e adattarvi anche le strategie politiche, è paradossale però che di queste sabbie mobili sia divenuto vittima eccellente il proposto accordo transatlantico tra UE e USA per il commercio e gli investimenti (TTIP).

È paradossale per vari motivi:

Primo, perché non si tratta di un accordo con un paese che riesce a produrre merci simili a quelle italiane, o francesi, a costi molto più bassi, come può essere la Cina o l’India (uno dei motivi “percepiti” come causa della chiusura di fabbriche in Europa, anche se è vero solo in minima parte). Si tratta invece di un accordo tra due aree con costi di produzione non molto diversi (se si considera la UE nel complesso), che generano il 40% del commercio mondiale e che hanno riscontrato gli stessi problemi di bassa crescita negli ultimi anni.

Secondo, perché si tratta di un accordo di “nuova generazione”, il cui obiettivo non è tanto la riduzione dei dazi (con poche eccezioni, infatti, questi ultimi sono già relativamente bassi) ma la riduzione delle barriere non tariffarie, tramite una convergenza normativa in vari settori. Ciò al fine di diminuire i costi che gravano sulle aziende esportatrici da entrambi i lati dell’Atlantico, costrette, ad oggi, a utilizzare standard diversi per i loro prodotti destinati al mercato USA e al mercato UE (si stima, infatti, che il 75% dei benefici del TTIP per le economie UE e USA deriverebbero proprio dalla maggiore convergenza su standard tecnici e sugli aspetti regolatori).

Terzo, perché il saldo è nettamente positivo per la UE, contrariamente all’interscambio con paesi come la Cina per esempio, e quindi per lo meno la UE partirebbe già in pole position.

Eppure, a seguito di questa nuova pressione mediatica che si è concentrata perlopiù solo su alcuni aspetti dei negoziati (il settore agroalimentare, la risoluzione delle controversie) tralasciandone altri molto importanti, l’UE ha finito per assumere posizioni per così dire “altalenanti” negli ultimi 3 anni, dimostrando anche scarsa coesione e chiarezza sul ruolo che intende giocare nel mondo.

A dire il vero, sia la Commissione Barroso che quella Juncker non hanno mai cambiato senso di marcia, in quanto operavano ed operano sulla base di un mandato negoziale; sono stati invece alcuni paesi membri ad aver influito negativamente sui negoziati.

Eppure, nel 2013, furono proprio i paesi europei (in primis la Germania) a spingere per l’avvio di quegli stessi negoziati, invito accolto di buon grado dall’amministrazione Obama, che vide un’occasione non solo per stimolare crescita e occupazione sui due lati dell’Atlantico, ma anche per “dimostrare la nostra determinazione a plasmare un mondo libero, aperto e basato sulle regole”: se all’interno dell’area economica e commerciale transatlantica si adottassero regole comuni, per esempio in merito agli standard di produzione o omologazione di prodotti o agli standard nei servizi, queste regole diventerebbero lo standard per il resto del mondo.

I primi paletti giunsero dagli amici francesi, i quali pretesero ed ottennero l’esclusione del settore audiovisivo dall’accordo, per il timore di un’ “invasione” di prodotti audiovisivi americani, mentre sui servizi finanziari furono gli USA a mettere le mani avanti. Nel frattempo, i Verdi, in Germania e altri paesi europei, puntavano il dito sulla questione degli OGM, sbandierata per tutta la durata dei negoziati con una quantità incredibile di allarmismi.

Le elezioni europee del 2014 hanno poi cambiato la composizione del Parlamento Europeo con l’ingresso di nuovi partiti e movimenti che combinano il loro euroscetticismo con una generale ostilità verso ogni accordo negoziato “da Bruxelles”. Lo scandalo delle intercettazioni USA in Germania ha spostato a sua volta una parte dell’opinione pubblica verso una posizione antiamericana non favorevole ai negoziati. Ancora nel 2015, però, sia la Francia, sia l’Italia, sia, soprattutto, il governo tedesco (per bocca dello stesso Sigmar Gabriel oltre che della Merkel) si dichiaravano a favore, descrivendo il TTIP come un’opportunità da non perdere, pena l’irrilevanza dell’Europa nel mondo del futuro.

Allo stesso tempo, anche su pressione dei Verdi, la Commissione si era imbarcata in un’operazione “inclusione e trasparenza” senza precedenti nella storia dei negoziati commerciali UE, che prevedeva il coinvolgimento di numerosi stakeholders o ONG nelle consultazioni precedenti ai round negoziali e la pubblicazione del mandato negoziale e di tutte le proposte testuali UE fatte agli USA. Infine, sempre nel 2015, il nuovo Parlamento Europeo ha commissionato un rapporto e ha messo ulteriori paletti all’azione della Commissione, dando comunque la luce verde alla continuazione e conclusione dei negoziati.

La musica cambia a partire dalla primavera 2016: in primis, l’amministrazione americana ha risposto in maniera più lenta e incerta alle proposte UE, anche a causa della debolezza di Obama durante il suo ultimo anno - debolezza però, badate bene, che non ha impedito agli USA di firmare il TPP, accordo speculare al TTIP, che guarda però verso il Pacifico. La crescita dei movimenti populisti nei sondaggi e nelle elezioni locali ha spaventato i partiti di governo tradizionali in Europa, che progressivamente – prima in Francia, poi in Austria e infine (con la notevole eccezione della CDU) in Germania - cominciano a dirsi contrari al trattato. In Italia hanno esplicitato la propria contrarietà forze politiche che vanno dall’estrema sinistra all’estrema destra, passando per i no global per eccellenza (5 Stelle) e addirittura pezzi di Forza Italia, lasciando il PD e il governo Renzi sostanzialmente isolati nella loro determinazione a proseguire.

Il risultato del referendum sulla Brexit, poi, ha finito per indebolire il fronte tradizionalmente “pro-free trade” e atlantista all’interno della UE. Considerazioni politiche relative alle elezioni del 2017 stanno spingendo infine il governo francese a mettere un freno ai negoziati, mentre quello tedesco resta diviso. In tutte queste fasi vengono elegantemente ignorate sia la posizione della Commissione che quelle di altri paesi membri più tradizionalmente aperti verso l’accordo come l’Olanda, la Spagna ma anche i paesi dell’Est Europa, determinando un’ulteriore frattura. Per la prima volta dalla sua nascita, la UE deve fronteggiare una rivolta interna di alcuni paesi membri contro una linea che segue un mandato negoziale già ricevuto proprio da loro, ma anche dal Parlamento Europeo, e su argomenti in cui la UE ha competenza quasi esclusiva.

Chi perderà dal mancato raggiungimento di un accordo? Difficile trarre conclusioni: nessun accordo sarebbe comunque preferibile ad un accordo che non tiene in considerazione la maggior parte delle richieste UE, ma è anche vero che nessun accordo può soddisfare tutte le richieste UE, come vorrebbero alcuni paesi membri nostalgici della loro passata “grandezza”. Da un punto di vista geopolitico, un fallimento dei negoziati senz’altro metterebbe la UE davanti al dilemma se continuare a guardare ad Ovest o cominciare a rivolgersi ad Est per nuove opportunità di crescita. Mentre l’Ovest è terreno familiare, l’Est è cosa relativamente nuova e piena di incognite, e vi si trovano attori pronti a giocare al vecchio gioco del “divide et impera”, stavolta con noi europei, divisi come mai.