Migrazioni e islam sono il nuovo banco di prova della politica occidentale. Il bipolarismo 'aperto' contro 'chiuso' ha soppiantato e rimescolato gli schemi della vecchia alternativa 'destra' contro 'sinistra'. Al radicalismo islamista, che ha infettato il vecchio continente, non può essere regalata la rappresentanza dell’islam europeo, né offerto l’alibi della guerra di religione. E agli islamici che vivono in Europa non può essere concessa alcuna prerogativa separatistica.

BDV ponte

Vent'anni fa molti pensavano che le ideologie stessero tramontando e che la democrazia in Europa e nell’intero Occidente avrebbe stemperato in un sostanziale 'monopolarismo' politico-culturale le asprezze degli scontri del secondo dopoguerra, incentrati su visioni diverse e opposte della società, dell'economia e delle alleanze internazionali sul fronte strategico e militare. Oggi abbiamo tutti capito che questa profezia, come molte profezie ottimistiche, era destinata a rovesciarsi nel suo contrario.

Nelle democrazie europee - e per molti aspetti anche in quella americana - il nuovo bipolarismo "aperto" contro "chiuso", che ha rimescolato e largamente soppiantato quello tra "destra" e "sinistra", ripropone visioni diverse e opposte della società, senza neppure più il contenimento operato fino alla caduta del Muro di Berlino dall'equilibrio del terrore e dalle rigide geometrie politico-ideologiche della Guerra Fredda.

In questo scontro fra "aperto" e "chiuso", uno dei temi più divisivi e polarizzanti è naturalmente quello migratorio, che mette in campo la variabile determinante delle diversità religiose come terreno di scontro culturale e civile. E, tra queste diversità, la più "diversa", demograficamente numerosa e politicamente problematica è evidentemente quella islamica. Il risultato è che immigrazione e islam sono diventati, quasi sempre congiuntamente, il tema di discussione dirimente: oggi, attaccando gli immigrati e gli islamici tout court con argomentazioni e sfumature più o meno radicali, si possono tranquillamente vincere le elezioni o conseguire affermazioni impensabili fino a pochi anni fa.

Il connotato ideologico, prima che materiale, del voto anti-immigrati e anti-islamici è reso evidente dall'analisi dei dati elettorali, che mostra con buona regolarità come i migliori risultati delle forze xenofobe hard o soft si registrino nei territori in cui vi sono meno e non più immigrati e islamici e dove la paura non è un riflesso di una "invasione", ma di una "ossessione".

La paura o l'avversione per l'immigrazione, con il dichiarato obiettivo di preservare l'omogeneità etnica e religiosa del demos rappresentato, costituisce di per sé una piattaforma politico-elettorale che ridefinisce gli schieramenti, attraendo elettori da destra e da sinistra. Le ricette chiamate a dar corpo a questa piattaforma sono sempre imperniate sulla chiusura nazionalistica, la diffidenza per le istanze istituzionali e giuridiche internazionali e il protezionismo economico e molto spesso su una diffidenza nei confronti della razionalità scientifica e delle differenze (sessuali, culturali, morali…) rispetto ai valori tradizionali, intesi in senso sempre più astorico e mitologico.

La società aperta europea, che ha battuto nelle urne il comunismo, rischia di soccombere al nazionalismo sovranista e identitario che promette di difenderci dall'invasione degli stranieri, dal meticciato culturale e religioso e da un processo d’integrazione economica globale destinata ad amplificare questi pericoli e ad accrescere la dipendenza economica e demografica dell’ex "primo mondo". Si tratta di una promessa vana e suicida, fondata su un’analisi fallace e autoconsolatoria dei costi della globalizzazione, ma anche di un messaggio straordinariamente potente.

La difesa della società aperta richiede di fare i conti con l'islam europeo, troppo a lungo ignorato nella sua dimensione storico-sociale ed eluso nella sua diversità politico-culturale e affrontato con due approcci uguali e contrari ed entrambi inefficienti: quello della neutralizzazione religiosa, come se l’integrazione nella società europea presupponesse un superamento della fede e dell’appartenenza islamica; e quello della convivenza separatistica, come se le relazioni pericolose tra identità islamica e cultura secolarizzata potessero essere sorvegliate solo da un sistema di controllo che ritagliasse un perimetro islamico nel tessuto della società laica, evitando il reciproco "contagio". Di fatto agli islamici europei si è detta, in due modi diversi, la stessa cosa, cioè di poter essere o islamici o europei e di essere liberi di muoversi solo all’interno di questa alternativa, favorendo l’azione di quanti predicavano dall’interno dello stesso mondo islamico l’impossibilità di qualunque negoziato e compromesso.

Possiamo dire però che siano stati questi errori la causa determinante della radicalizzazione politico-religiosa e della violenza terroristica in Europa e contro l’Europa? No. Penso che il senso di colpa europeo, in questo caso, sarebbe un facile alibi per il fenomeno dell’islamismo politico radicale, sia esso violento o "pacifico". Esso, infatti, nasce nel corpo sociale del mondo islamico e nella disgregazione dell’ordine post-coloniale come risposta patologica al rapporto dell’islam con la modernità e infetta l’Europa dall’esterno, aggredendola a partire dai suoi settori più vulnerabili, quelli della marginalità economica o dell’alienazione sociale degli immigrati di seconda generazione.

Penso dunque che questo fenomeno, proprio perché chiaramente intra-islamico, chiami in causa innanzitutto l’islam europeo. Una politica riformatrice e aperta deve porsi come obiettivo che esso divenga soggetto attivo, partecipe e responsabile di questo scontro per la difesa della tolleranza civile e della libertà religiosa, che per gli islamici europei – e tutti gli islamici che vivono in Europa – rappresentano allo stesso tempo un diritto e un dovere.

Prima di tutto si tratta di sgomberare il campo – compito difficile – dal pregiudizio che vede il terrorismo islamista puntare all'obiettivo europeo e cristiano. Il terrorismo islamista ha colpito il territorio e i popoli europei con efferatezza insensata e sbalorditiva, ma in modo quantitativamente residuale, accanendosi in massima parte su migliaia e migliaia di inermi fedeli delle varie confessioni musulmane nei paesi arabi e islamici. Sciogliere questo equivoco serve a riportare l'attenzione sulla questione strutturale che riguarda decine di milioni di persone cittadine o residenti in Europa, che non possono giuridicamente e non devono politicamente vivere come un distinto "stato religioso" transnazionale in mezzo a stati nazionali ostili alla loro identità.

Io penso non solo che l'islam europeo – islamico e europeo – sia lo scandalo che è bene che avvenga e che sia riconosciuto, ma che la sfida della compatibilità tra democrazia liberale e fede islamica sia decisiva per la nostra comune vita futura in libertà e sicurezza.

Per questo, ad esempio, credo che non si debba temere di codificare secondo generali principi costituzionali alcune questioni sensibili; ad esempio, per rimanere nell’attualità, continuando a vietare la poligamia e il burka, ma non il burkini, cioè impedendo il sovvertimento delle regole civili fondamentali – la parità giuridica "visibile" e non rinunciabile, neppure volontariamente, tra uomini e donne – ma non introducendo forme di discriminazione arbitraria, che vietino comportamenti, abbigliamenti o stili di vita a seconda della fede religiosa professata.

La rappresentazione dell’impossibilità di essere insieme "buoni islamici" e "buoni europei" va superata di slancio. Non per relativismo o per buonismo, ma, al contrario, per preparare la via a una difficile, ma possibile integrazione dell’islam europeo in un continente che non perde, ma rivendica universalisticamente (anche verso l’islam, ma non contro l’islam) i suoi fondamenti costituzionali: le libertà personali, l’uguaglianza delle persone e tra i sessi, lo stato di diritto e la democrazia politica.

Contrapporre strumentalmente i "nostri" valori ai "loro" farebbe torto alla verità della stessa storia europea, per non parlare di quella italiana. Basterebbe andare indietro solo di qualche decennio per ritrovare nel nostro ordinamento giuridico menomazioni della condizione femminile – la subordinazione giuridica e sociale nella famiglia e fuori dalla famiglia, una minorità civile rivendicata e perfino accettata come crisma della cosiddetta "tradizione" – che oggi riteniamo inconcepibili e giustamente denunciamo come uno scandalo inammissibile, a maggior ragione se giustificato dietro lo schermo del libero consenso delle donne.

La società che i campioni della chiusura identitaria e xenofoba vogliono difendere dall'invasione straniera è quella che la società aperta ha codificato e conquistato nei decenni, di volta in volta sconfiggendo le chiusure che la politica del tempo voleva apprestare a presidio dei cosiddetti "valori tradizionali".

La consapevolezza di difendere conquiste recenti deve spingere a cercare vie di integrazione con il mondo islamico che uniscano l'intransigenza e la pazienza, l’indisponibilità a negoziare il non negoziabile e la capacità di comprendere le differenze e di superare le incomprensioni in una prospettiva storica, su tempi che seguono il flusso delle generazioni, e non possono essere dettati dalla cronaca o dai calendari elettorali.

La sfida è, letteralmente, epocale e l'esito incerto; ma dobbiamo scommettere che sulla libertà, sul ruolo della donna nella famiglia e nella società, sull'omosessualità, sulla laicità delle istituzioni e dello spazio pubblico (non contro ma a tutela della libertà religiosa), come siamo cambiati "noi", possano cambiare "loro".

@bendellavedova