Una rassegna ragionata dei principali argomenti contro una riforma che non è esente da difetti, ma che resiste agevolmente a critiche deboli e infondate e realizza un obiettivo storico - la fine del bicameralismo paritario - divenuto imprescindibile per superare la crisi costituzionale emersa dopo le elezioni del 2013.

Calderisi stop

È una riforma approvata da una maggioranza ristretta e variabile.
Essa è stata invece elaborata e votata nelle prime letture non solo dal Pd ma anche dall’intero centrodestra, mentre il M5S si è sempre chiamato fuori. Solo a seguito dell’elezione di Mattarella - e non per ragioni di merito - Forza Italia ha votato contro, determinando l’ulteriore scissione di una parte dei suoi parlamentari che volevano continuare a sostenere la riforma. La maggioranza che ha votato a favore è stata comunque sempre vicina al 60%. Ed è singolare che a sostenere la tesi di una riforma approvata con una maggioranza ristretta siano anche quegli esponenti della sinistra Pd critici del patto del Nazareno con Berlusconi.

È sbagliata la composizione del Senato basata sui consiglieri regionali.
Premesso che una camera rappresentativa delle istituzioni territoriali è indispensabile come sede di raccordo tra legislatori regionali e legislatore statale al fine di ridurre l’abnorme contenzioso costituzionale tra Stato e Regioni, per la composizione di questa seconda camera sono sempre esistite diverse soluzioni, tutte relativamente opinabili. Ma quando quella basata sui consiglieri regionali è stata proposta dall’Ulivo (tesi n. 4) o dalla “bozza” Violante, nessuno ha sollevato obiezioni particolari, anzi queste proposte hanno raccolto grandi consensi. Questa soluzione è stata avanzata anche dalla Commissione per le riforme istituita dal governo Letta. Con il modello Bundesrat, basato sugli esecutivi, al quale allude il documento dei 56 costituzionalisti per il No, il primo Senato sarebbe composto all’80% circa da esponenti del Pd. Chi avrebbe votato a favore di questa soluzione? Basta considerare che Forza Italia (quando concorreva a scrivere la riforma) ha imposto l’esclusione dei Presidenti di Regione come membri di diritto (essi potranno essere eletti al Senato solo in qualità di consiglieri, una soluzione impropria, imposta però dalle esigenze di mediazione politica).

Gli organi di garanzia, il Presidente della Repubblica e il CSM, ricadono nella sfera di influenza della sola maggioranza di governo.
Conti alla mano, non è così, perché il quorum per l’elezione del PdR è stato elevato ai 3/5 dei componenti, a partire dal quarto scrutinio, e dei votanti a partire dal settimo. Per raggiungere il quorum dei 3/5 dei componenti (438), la maggioranza di governo dovrebbe disporre - oltre ai 340 seggi assicurati dal premio alla Camera e ad alcuni (ipotizziamo pure 6 su 12) seggi della circoscrizione estero - di quasi tutti i senatori, cosa impossibile: anche ammettendo per assurdo che uno stesso partito vinca tutte le elezioni regionali, avrebbe al più 55-60 seggi. Pertanto, la maggioranza di governo potrebbe disporre, al massimo, di 406 seggi (senza tener conto che, votandosi a scrutinio segreto, questo numero si riduce almeno del dieci per cento). Quanto al quorum dei 3/5 dei votanti, esso tenderà a coincidere con i 3/5 dei componenti perché è da escludere che le opposizioni facciano un favore alla maggioranza non partecipando al voto e quindi abbassando il quorum. Sul quorum dei 3/5 esiste, semmai, una preoccupazione opposta, cioè che, essendo molto elevato, potrebbe determinare una situazione di stallo (vedi le difficoltà di nominare i giudici costituzionali). Sarebbe stato preferibile allargare il collegio di elezione del Presidente della Repubblica e prevedere una norma di chiusura con un quorum meno elevato; ma una parte della minoranza del Pd, divisa al suo interno sul punto, si è opposta a questa più ragionevole soluzione.
Da sottolineare che, oltre alle garanzie e ai limiti al potere del governo già ampiamente presenti nel nostro ordinamento (Presidente della Repubblica, Corte Costituzionale, Csm, magistratura inquirente del tutto autonoma dal governo, separazione verticale dei poteri, dalla Ue alle Regioni, referendum abrogativo), la riforma accresce il sistema complessivo delle garanzie prevedendo che: a) il regolamento della Camera disciplini lo statuto delle opposizioni; b) le proposte di legge di iniziativa popolare non rimangano nei cassetti, ma giungano ad una deliberazione conclusiva; c) il quorum di validità dei referendum abrogativi richiesti da 800 mila elettori sia ridotto alla metà dei votanti alle ultime elezioni della Camera; d) siano introdotti i referendum propositivi e di indirizzo; e) le leggi elettorali siano sottoponibili ad un giudizio preventivo di legittimità costituzionale; f) i decreti-legge subiscano fortissime limitazioni, grazie all’alternativa rappresentata dai disegni di legge con voto “a data certa”, cioè all’introduzione di quella “corsia preferenziale” che faceva già parte del “decalogo istituzionale” di Spadolini del 1982.

La pluralità dei procedimenti legislativi determina potenzialmente incertezze e conflitti tra le due camere.
L’argomento ha qualche fondamento, ma una pluralità di procedimenti è inevitabile negli Stati decentrati e a bicameralismo differenziato, salvo ridurre fortemente i poteri del Senato. Certamente è impossibile una semplificazione dei procedimenti con l’aumento dei poteri del Senato, come vorrebbe il documento dei 56 costituzionalisti per il No. In ogni caso va chiarito che i procedimenti legislativi non sono affatto 9 o 12 come affermato da alcuni, ma solo 3: quello ordinario che riguarderà le leggi che attengono all’indirizzo politico, comprese quelle di bilancio (si tratta di almeno il 95% delle leggi, per esse l’esame inizia alla Camera, il Senato può proporre modifiche, la Camera si pronuncia in via definitiva); quello bicamerale paritario per le leggi costituzionali e altre leggi “tipizzate” ed elencate in modo tassativo, riguardanti “regole” istituzionali; infine quello per l’attivazione da parte del governo della clausola di supremazia statale (la Camera si deve pronunciare a maggioranza assoluta se non intende accogliere le proposte di modifica approvate dal Senato a maggioranza assoluta). Può semmai destare preoccupazione che il Senato approvi in via paritaria le leggi costituzionali e le leggi di ratifica dei trattati relativi all’Ue, cioè che il Senato abbia poteri troppo significativi (valuta anche le politiche pubbliche, verifica l’attuazione delle leggi, nomina due giudici costituzionali, insomma è una camera tutt’altro che “devitalizzata”).

Vi è una eccessiva centralizzazione delle competenze legislative.
Con la riforma del bicameralismo, le Regioni concorrono alla stessa legislazione statale e ciò compensa ampiamente l’opportuna ricentralizzazione di alcune competenze come quelle sulle grandi reti, l’energia, il coordinamento della finanza pubblica ed altre indebitamente attribuite alla legislazione concorrente dalla frettolosa e mal concepita modifica del 2001. La riforma traduce in norme gli orientamenti espressi in questi anni della stessa Corte costituzionale. Revisione del titolo V e riforma del bicameralismo sono due facce della stessa medaglia: grazie a una camera capace di canalizzare le esigenze degli enti territoriali sarà il Parlamento, e non impropriamente la Corte costituzionale, a decidere preventivamente “chi fa cosa”, riducendo i conflitti tra Stato e Regioni.

La riforma realizza una “deriva autoritaria”.
Si tratta di una accusa del tutto destituita di fondamento, peraltro respinta dallo stesso documento dei 56 costituzionalisti per il No. Essa è dettata dal più strenuo conservatorismo istituzionale e dall’antistorico “complesso del tiranno”, oltre che da tatticismi politici di corto respiro.
La riforma dà più stabilità ed efficacia all’azione di governo, ma rafforza anche la forma di governo parlamentare. Il superamento del bicameralismo paritario conferisce più autorevolezza e valorizza la sede (unica) della sovranità popolare in una più serrata dialettica con il governo e con la società rappresentata. La verticalizzazione del potere a vantaggio del governo non deriva tanto dalla riforma costituzionale quanto dalla legge elettorale che, con il ballottaggio, porta alla legittimazione diretta del premier.

Il sistema istituzionale complessivo dato dalle due riforme delinea (come recita il capitolo IV, punto 4, della Relazione finale della Commissione per le riforme istituita dal governo Letta) “una forma di governo parlamentare del Primo ministro”, in grado “di far emergere da una sola consultazione degli elettori la maggioranza parlamentare e l’indicazione del Presidente del Consiglio, in modo da incorporare la scelta del leader nella scelta della maggioranza”.

Chi vincerà le elezioni superando al primo turno il 40% dei voti oppure il 50% nel ballottaggio, otterrà 340 seggi, solo 24 in più della maggioranza assoluta di 316. Inoltre, dei 340 deputati della maggioranza, 100 saranno eletti come capilista nei collegi, 240 con le preferenze; pertanto, anche all’interno della maggioranza vi sarà un’ampia dialettica. C’è anzi da temere il rischio opposto, perché appena 25 deputati della maggioranza potrebbero mettere in causa la stabilità dell’esecutivo in qualsiasi momento, tanto più che la riforma non modifica gli articoli della Costituzione relativi alla forma di governo (come invece proponeva la Commissione per le riforme istituita dal governo Letta). Di conseguenza il Governo non potrà avvalersi di quei “dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo” richiesti dall’ormai mitico ordine del giorno Perassi, ma finora mai realizzati (e che potrebbero rendere stabili le coalizioni anche a livello nazionale, consentendo di attribuire il premio di maggioranza alla coalizione). Pertanto, con la riforma il Presidente del Consiglio non potrà revocare i ministri, né proporre credibilmente il ricorso anticipato alle urne come deterrente contro i fattori di instabilità della maggioranza, né porre il veto sulle deliberazioni che comportino oneri per la finanza pubblica, poteri di cui invece dispongono i Capi degli esecutivi nelle altre democrazie parlamentari europee come Gran Bretagna, Germania, Spagna. Insomma, la riforma modernizza il sistema istituzionale inclinando la forma di governo parlamentare verso il c.d. modello Westminster (senza peraltro realizzarlo compiutamente), ma non realizza affatto un “presidenzialismo surrettizio” né concede “poteri assoluti a un uomo solo al comando”!

In conclusione, si tratta di una buona riforma, anche se certamente non esente da difetti, peraltro superabili con una buona attuazione e manutenzione costituzionale. Essa avvicina l’Italia alle grandi democrazie europee, superando l’incapacità decisionale che da tempo affligge il nostro sistema politico-istituzionale.

Gli argomenti del No o sono privi di fondamento o sono comunque troppo deboli per giustificare il voto contrario ad una riforma che realizza l’obiettivo storico del superamento del bicameralismo paritario, un obiettivo divenuto imprescindibile e non più rinviabile al fine di risolvere la crisi costituzionale emersa dopo le elezioni del 2013. In Spagna non riescono più a formare un governo pur avendo una sola camera che esprime la fiducia.

In Italia, con il bicameralismo paritario e due camere elette, per Costituzione, da due corpi elettorali diversi, sarebbe pressoché impossibile. Il Paese precipiterebbe nell’instabilità più assoluta. Ma un sistema instabile - come ha sostenuto Violante in un’intervista sul caso Morosini - “fa comodo a chiunque ha acquisito in via di fatto poteri eccedenti le regole costituzionali e le proprie competenze” e, aggiungo, teme l’azione riformatrice che solo governi legittimati direttamente dal voto popolare possono realizzare.