In Italia è stato affrontato superficialmente, come una questione secondaria, o liquidato come un'effimera moda, ma il federalismo fiscale in realtà è molto di più. Vediamo perché

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Anche a costo di deludere le anime coraggiose che pensano che l'economia sia una scienza tout court, vi voglio qui aprire gli occhi sul fatto che le mode in economia, e nel disegno delle istituzioni politiche, sono un fenomeno diffuso, tale da creare ondate di riforme che vanno in una certa direzione, per poi passare da una fase di riflusso, in cui si smontano le riforme e si ricomincia daccapo. Talora con una nuova moda.

È questo il caso del federalismo fiscale, cioè del progetto di allocare ambiti di intervento, spese ed imposte ai livelli locali del governo, avendoli sottratti al livello centrale. Questa spinta verso un modello federale è iniziata alla fine del secolo scorso ed è proseguita nei primi anni 2000, coinvolgendo paesi a tutti i livelli dello sviluppo economico.

L'antica giustificazione a favore del federalismo fiscale va sotto il nome di Teorema di Oates: se (i) le preferenze locali a proposito di beni e servizi forniti dallo stesso – in particolare: beni pubblici- sono geograficamente eterogenei e (ii) i beni pubblici nella località A beneficiano esclusivamente gli abitanti di tale località senza avere effetti esterni, allora ben venga il decentramento: le decisioni a proposito del livello di spesa su questi beni locali e del modo di finanziarli vengano prese all'interno della singola località.

Primo piccolo problema rispetto a questo approccio: se vi sono tanti beni locali che producono benefici in aree che si sovrappongono in maniera complessa, allora il teorema suggerisce di creare tante istituzioni locali con poteri fiscali e di spesa che corrispondono ai diversi beni locali, anche a costo di barocche sovrapposizioni. Il sistema risulta efficiente per questa idea di corrispondenza tra benefici e decisioni, ma nel contempo finisce per essere estremamente costoso per il proliferare di "enti locali". Per buttarla in caciara (ma neanche troppo): non lamentatevi delle comunità montane, perché stanno sotto l'ala protettrice del Professor Oates e del suo Teorema.Secondo piccolo problema: il fatto che i gusti siano geograficamente eterogenei non impedisce assolutamente che un'autorità centrale sia in grado di fornire livelli diversi di questi beni pubblici locali nelle diverse località, così da accontentare in maniera precisa questi gusti: sotto questo profilo, il federalismo fiscale non è necessario.

La storia non finisce qui: la nuova generazione di modelli del federalismo fiscale abbandona l'ipotesi che i governi siano benevolenti fornitori dell'ammontare di beni pubblici desiderati dalle singole comunità, per abbracciare la realistica e/o cinica ipotesi che i governi siano fatti da politici non necessariamente benevolenti, ma molto probabilmente interessati al loro particulare, che può consistere nell'essere rieletti, nel vedere implementate le politiche che come privati cittadini preferiscono, e/o nel ricevere vantaggi monetari dal detenere il potere. In questo mondo privo di politici benevolenti, una prima giustificazione per il federalismo fiscale sta nella maggiore capacità a livello locale di controllare l'operato dei politici, così da ottenere una performance migliore dal punto di vista del soddisfacimento delle esigenze dell'elettorato. È il tema grande dell'accountability, cioè della responsabilità dei politici rispetto all'elettorato, e della ricerca dei meccanismi istituzionali maggiormente capaci di rendere i politici per l'appunto reattivi rispetto alle preferenze dei cittadini.

Un ulteriore vantaggio del federalismo fiscale è dato dalla possibilità di sperimentare un numero maggiore di politiche diverse: con un adeguato livello di informazione è possibile scoprire in tempi più brevi quale possa essere la politica ottimale in un determinato settore, rispetto alla situazione opposta in cui vale una politica nazionale unica. Potreste a questo punto obiettare che il governo centrale sia in grado di provare diverse politiche nelle diverse località, ma la concorrenza tra regioni, comuni e altri enti locali può servire come spinta più convincente verso la sperimentazione.

È difficile trovare una scelta istituzionale o di politica economica per cui tutti i benefici pendono da una parte, senza costi che rendono più difficile il calcolo di convenienza finale. Nel caso del federalismo fiscale una delle principali obiezioni è che il rischio di cattura da parte di gruppi di interesse è forse maggiore a livello locale, esattamente a motivo della vicinanza maggiore tra questi e gruppi e i politici "catturabili". È anche possibile che i mass media a livello locale non abbiano i mezzi sufficienti per agire come "cani da guardia" (watchdog) rispetto ai politici eletti, oppure siano più facilmente catturabili da parte dei gruppi di interesse o dei politici stessi.

Vedete bene come la materia sia piuttosto complicata e aggrovigliata, anche se non mancano alcuni punti fermi. Ad esempio, in un sistema istituzionale in cui i livelli della spesa sono decisi a livello locale ma il finanziamento di questa è fatto a livello nazionale soddisfacendo la somma delle richieste locali, la possibilità di attingere a risorse comuni spinge ad un eccesso di spesa. Qualcuno ricorda qualcosa delle USL (Unità Sanitarie Locali), di fatto rimborsate dal governo nazionale sulla base del costo storico dei servizi prestati?

Nel caso italiano, l'ormai famigerata riforma del Titolo V della Costituzione ha allargato di molto il numero delle materie in cui esiste una competenza concorrente tra stato e regioni, ad esempio in materia sanitaria. In termini comparativi, il punto di riferimento è il federalismo tedesco, ma la contrattazione tra livello regionale e livello centrale per i casi di legislazione concorrente, invece di prendere corpo nel futuribile Senato delle Regioni creato dalla riforma costituzionale prossima ventura, nel sistema attuale avviene all'interno di un luogo istituzionale molto meno saliente dal punto di vista mediatico, ma non per questo meno cruciale per la formazione delle policy: la Conferenza Stato Regioni (CSR). Il funzionamento della CSR si basa largamente sul principio dell'unanimità, che sottopone ogni decisione ad un possibile veto, anche se il Consiglio dei Ministri (cioè il governo centrale) può prendere una decisione al posto della CSR in caso di mancato accordo.

Il meccanismo dell'accountability incontra poi notevoli difficoltà di applicazione per la presenza di queste materie basate sulla principio della legislazione concorrente: da un lato il governo regionale è responsabile sia per le sue competenze esclusive che per le sue competenze concorrenti con il governo centrale, e lo stesso vale per il governo centrale. Fin qui nulla di strano: abbiamo un solo voto per dare un giudizio su politici che prendono una serie lunghissima di decisioni, e siamo costretti a attribuire un peso relativo a queste diverse decisioni, per arrivare a un responso finale. La questione del voto che punisce o premia si complica assai nell'ambito stesso della CSR: a chi diamo la responsabilità dell'accordo preso, o del mancato accordo? Al governatore della nostra regione o al governo centrale? Abbiamo due voti a disposizione, ma non sappiamo districare le responsabilità all'interno di un comitato tutto sommato oscuro.

Basterà un Senato delle Regioni per far funzionare in maniera più trasparente il processo di decisione concorrente tra stato e regioni? Oppure dobbiamo rinunciare alla compartecipazione nelle decisioni tra stato e regioni e pensare a un sistema in cui la competenza è sempre esclusiva: allo stato oppure alle regioni?


Per chi vuole saperne di più:
L. Bernardi e R. Puglisi [2007]. "Federalismo democratico e comitati interlivelli." Politica Economica 23(1): 5-28.
T. Besley e S. Coate [2003]. "Centralized versus decentralized provision of local public goods: a political economy approach" Journal of Public Economics 87: 2611-2637. Disponibile qui.
J.-P. Faguet [2014]. "Decentralization and Governance" World Development 53: 2-13.