Il Bundesrat all'italiana dovrebbe essere, secondo Renzi, un'assemblea di sindaci e governatori. Ma fare del Senato l'ennesimo ente inutile e sperare che serva a qualcosa è francamente troppo. Meglio abolirlo, o ripensare seriamente il suo ruolo costituzionale, senza sacrificarne la rappresentatività democratica.

Palazzo Madama sito

Il Bundesrat all'italiana dovrebbe dunque essere un'assemblea di sindaci e presidenti di regione, più una pattuglia di senatori honoris causa, non a vita, ma a tempo determinato. Un organo di secondo livello, non solo nel senso di non elettivo, una camera dei capoluoghi, più che dei territori, e (absit iniuria verbis) delle competenze, una sorta di dopo o doppio lavoro nazionale per i campioni della politica locale e dell'eccellenza italiana. Il downgrade istituzionale della camera alta, che consegue al superamento, da tutti auspicato, del bicameralismo perfetto, trasformerebbe così il Senato nell'anticamera (non democratica) dell'unica Camera (democratica) della Repubblica. Perché non abolirlo, allora?

Anche ai più benevoli simpatizzanti del Presidente del Consiglio non dev'essere sfuggito che, nel delineare la forma del nuovo Senato, Renzi ha dimenticato di definirne la sostanza costituzionale e di giustificare l'adeguatezza della prima alla seconda. Se non si capisce quali poteri il Senato sia chiamato a esercitare, non è possibile neppure immaginare chi e come dovrebbe essere chiamato a farne parte. La riforma della Senato come "camera federale" logicamente parte dalla riforma del Titolo V e della matrioska di campanilismi istituzionali, in cui è finito inghiottito il mito dell'autogoverno dei territori, un ibrido di autonomia politica e di eteronomia finanziaria, che ha sfasciato i conti pubblici e i rapporti tra centro e periferie.

Si dirà che Renzi procede per lampi, per messaggi generali suscettibili di declinazioni concrete e di aggiustamenti, e che dunque il progetto del nuovo Senato è poco più di una brutta, disegnata a matita, priva di qualunque definitività, se non nella sua premessa e promessa politica, quella un Senato a costo zero, senza eletti e senza emolumenti. Ma - ripetiamo - che si sia partiti di qui e da una retorica "comunalista" (i sindaci come custodi e garanti del territorio e del rapporto dei cittadini con lo Stato) dice già perfino troppo della natura propagandistica dell'antipasto, per non far dubitare della qualità delle portate che seguiranno.

Non convince l'idea di fare del Senato una cosa che ricorda vagamente il Bundesrat, senza che l'Italia sia o possa diventare davvero uno stato federale (il federalismo non può inventarsi le regioni federande ritagliandone astrattamente i confini sulla carta amministrativa dello Stato, come ha fatto il regionalismo italiano) e senza che i comuni possano sostituire le regioni come parti del tutto federato. Questo è forse astrattamente coerente con l'epopea del Sindaco d'Italia e con l'idea della politica come esercizio di prossimità, anche sentimentale, ai bisogni del popolo, che è un motivo ricorrente, ma non originale, dello storytelling renziano. Se si guarda però concretamente la realtà, non esiste infrastruttura amministrativa più inefficiente ed entropica di quella degli oltre 8000 comuni italiani, tenuti insieme solo dalla retorica del gonfalone e non esiste periferia più periferica di quella satellite del comune capoluogo, che pure, secondo Renzi, dovrebbe rappresentarla a Palazzo Madama. E su questa base dovremmo costruire il "federalismo" di domani?

Se Renzi volesse fare una cosa scandalosamente seria, dovrebbe ripartire dalla riforma costituzionale licenziata dal centro-destra nel 2005 e frettolosamente liquidata dal centro-sinistra vincente nel 2006. Lì c'era un'idea, perfezionabile ma coerente, di come potessero cambiare insieme sia le regioni che il Senato e di come il bicameralismo potesse essere superato, senza rottamare Palazzo Madama nel museo dell'archeologia istituzionale. Della riforma del 2005, poi, era innanzitutto giusto il metodo: come cambia il Titolo V, così cambia il Senato. Non si parte dal secondo per cambiare il primo (anche in questo caso, secondo Renzi, partendo da un solo "valore non negoziabile", il dimezzamento delle indennità dei consiglieri regionali e l'azzeramento, se ben si è capito, delle spese di funzionamento dei gruppi consiliari).

Certo, si può fare di Palazzo Madama l'ennesimo ente inutile, ma non si può sperare che poi serva a qualcosa, se non a sbandierare i risparmi ed i tagli ai cosiddetti costi della politica.

Perché un Senato elettivo, con eletti pagati per rappresentare gli elettori, sarebbe democraticamente più "anomalo" di una camera alta trasformata nell'ambasciata delle periferie nella capitale del Paese? E siamo sicuri che un'assemblea di sindaci rappresentativi del proprio campanile e della propria egemonia amministrativa sui rispettivi "contadi" sia politicamente meno costosa di un'assemblea di professionisti politici, eletti e retribuiti per mettere ordine nel disordine politico, economico e morale del "federalismo all'italiana"?

L'impressione è che le proposte di Renzi su questi temi riecheggino troppo fedelmente la vulgata post-democratica grillina per non suscitare un qualche sospetto sulle ragioni e sugli esiti della rivoluzione annunciata. Non sarebbe meglio, anche se politicamente meno sexy, aggiornare seriamente il ruolo costituzionale del Senato, senza sacrificarne la rappresentatività democratica?