In una situazione di crisi e stagnazione economica, dove la mobilità sociale diminuisce e le disuguaglianze aumentano, è più difficile, per governi sempre più in preda all’estremismo, tenere dritta la barra delle riforme strutturali.

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La disuguaglianza crescente nei paesi sviluppati e i suoi effetti sulle politiche economiche, sebbene le evidenze suggeriscano che il fenomeno sia lontano dall’essere un pattern chiaro e comune a tutti i paesi Ocse, sono indubbiamente il tema più rilevante nel dibattito economico e politico degli ultimi anni, almeno dall’uscita del best-seller di Thomas Piketty “Il Capitale nel XXI secolo”.

Senza voler rinfocolare polemiche spesso ideologiche, sono molte le prove che suggeriscono che le disparità dei redditi nel presente giocano un forte ruolo nel determinare i risultati economici e sociali dei lavoratori lungo il loro arco di vita. L’Ocse si è recentemente spinta ad affermare che l'aumento della disparità di reddito può soffocare la mobilità sociale, rendendo più difficile per le persone di talento ottenere le ricompense che meritano, per il loro duro lavoro e per gli sforzi compiuti nell’istruirsi, nello studiare, nell’acquisire competenze spendibili sul mercato del lavoro.

Secondo l’Employment Outlook 2015 dell’Ocse la mobilità intergenerazionale del reddito, definita come la probabilità di elevarsi nella scala del reddito rispetto alle condizioni sociali della famiglia d’origine, è bassa nei paesi con un'elevata disuguaglianza come Stati Uniti e Regno Unito, mentre è molto più alta nei paesi nordici, in cui il reddito è distribuito più in modo uniforme (Figura 1).

Figura 1: Disuguaglianza di breve e lungo periodo e mobilità intergenerazionale. Fonte: OECD
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Questa correlazione sembra suggerire che una maggiore disuguaglianza distorce le opportunità e abbassa la mobilità intergenerazionale. Come si nota dal grafico, la disuguaglianza di breve periodo è più alta di quella calcolata lungo l’intero arco della vita attiva nel mercato del lavoro. La differenza è appunto data dalla mobilità del reddito. I dati mostrano che gli Stati Uniti spiccano in quanto a disuguaglianza di lungo periodo. Sembra che la storia spesso ripetuta sul “self-made man” americano, che munito solo di forza, coraggio, volontà e competenze riesce ad affermarsi sul mercato del lavoro, sia sempre più un mito non corrispondente alla realtà fattuale statunitense. Il sogno americano pare essersi tramutato in incubo.

Che la situazione sia quella descritta è noto a chi si interessa di cose economiche. Preparatissimi economisti come Chetty e Saez, per esempio, hanno dimostrato - usando dati amministrativi longitudinali che collegano le informazioni sui giovani e le loro famiglie - come gli Stati Uniti possano essere in realtà considerati come una “collezione” di società ben distinte e non perfettamente comunicanti. Alcune realtà locali sono vere "terre di opportunità", con alti tassi di mobilità intergenerazionale, mentre altre sono vere e proprie isole di segregazione sociale.

Gli autori stimano che la relazione tra il ranking sociale del figlio e quello del genitore è quasi perfettamente lineare: un aumento di 10 punti nel percentile di rango del genitore è associato a un aumento di 3.4 percentili nel rango del reddito del figlio. Anche l’iscrizione all’università e la probabilità di maternità nel periodo dell’adolescenza, per citare due indicatori standard di “rango sociale”, sono linearmente correlate al reddito del genitore. Un aumento di 10 percentili nel reddito del genitore è associato ad un aumento di 6,7 punti percentuali nell’iscrizione all’università, e a una riduzione di 3 punti percentuali nel tasso di natalità in età adolescenziale.

Inoltre, i dati sembrano suggerire che la variazione territoriale della mobilità sociale è assai importante. La mobilità relativa è più bassa per chi è cresciuto nel Sud-Est degli Stati Uniti, mentre la più alta si registra nel Mountain West e nel Midwest rurale. Alcuni distretti locali hanno una mobilità relativa paragonabile a quella dei paesi più performanti al mondo, come Canada e Danimarca, mentre altri hanno livelli più bassi di qualsiasi paese sviluppato per i quali i dati sono disponibili. Una vera catastrofe di “disuguaglianza” nella mobilità: paradisi che si alternano a inferni di segregazione.

La segregazione economica sembra essere correlata, per esempio, alla segregazione razziale. La mobilità intergenerazionale è significativamente più bassa nelle aree con grandi popolazioni afro-americane. Tuttavia, gli individui bianchi nelle aree con grandi popolazioni afro-americane hanno anch’essi tassi più bassi di mobilità, il che implica che la segregazione razziale sembra causare esternalità negative rilevanti a livello comunitario. Anche le zone con più disuguaglianza, misurata dall’indice di Gini, sono correlate negativamente alla mobilità, sebbene le quote di top 1% nella scala del reddito non siano troppo correlate con essa, il che suggerisce che i fattori che erodono la mobilità della classe media sono più importanti di quelli che favoriscono la crescita salariale nella parte altissima della distribuzione.

Se il sogno americano della mobilità sociale verso l’alto, come abbiamo visto, è nella migliore delle ipotesi dipendente da fattori locali così dirimenti, non stupisce che la battaglia e la rappresentanza politica siano più polarizzate a livello di collegio elettorale, soprattutto in anni recenti. Le cronache politiche provenienti da oltreoceano raccontano di un Trump ad un passo dalla nomination repubblicana, spinto da messaggi molto radicali distanti dalle piattaforme di destra come quella di Reagan, che erano molto “moderate” per quanto riguarda immigrazione e accordi commerciali.

Sullo spettro politico sinistro, invece, la sconfitta di Sanders non toglie nulla all’importanza del fatto che, per la prima volta nella storia, un politico statunitense non ha avuto alcuna paura a definirsi socialista, conquistando per di più parecchi stati nelle primarie del Partito Democratico. La coppia Trump-Sanders esemplifica, perciò, la polarizzazione delle preferenze politiche in atto nell’opinione pubblica americana.

È legata in qualche modo alla diminuzione della mobilità sociale e all’aumento dell’inuguaglianza? Molti studi recenti tendono a confermare che il legame è da considerarsi tutt’altro che remoto ed errato. James Garand, scienziato politico, ha esplorato questo legame in modo molto convincente. Secondo l’autore, i risultati della sua ricerca sono generalmente coerenti con le ipotesi di polarizzazione. In particolare, le piattaforme politiche di senatori democratici e repubblicani sono associate alla disparità di reddito nello stato che rappresentano. Le piattaforme politiche di senatori che provengono da Stati con elevati livelli di disuguaglianza di reddito sono più “estreme” rispetto a senatori di Stati meno disuguali. Tutto ciò è guidato dalle disparità di reddito dello stato che incide sulla polarizzazione delle preferenze elettorali.

Queste evidenze sono confermate da uno studio più recente della sociologa Christa Marr, che esplora la stessa relazione negli anni susseguenti alla crisi finanziaria. Una diminuzione della domanda di redistribuzione è associata, nel caso degli US, a una diminuzione della fiducia in governo. L'identificazione in un partito politico è un importante canale attraverso il quale la fiducia nel governo condiziona le preferenze per la ridistribuzione.

Lo studio contribuisce a un crescente corpo di letteratura che suggerisce un’associazione tra la fiducia e la domanda di redistribuzione del governo. In più, i risultati mostrano come la mobilità intergenerazionale impatta sulla polarizzazione politica indirettamente, attraverso il suo effetto sulla domanda di redistribuzione. Maggiore persistenza del reddito fra generazioni, in altre parole minore mobilità, è associata a una più forte domanda individuale per la ridistribuzione, che porta i membri del Congresso a votare in modo più “liberal”. Al contrario, Stati con alta persistenza intergenerazionale di reddito non sono rappresentati da legislatori di parte.

Gli effetti di tale polarizzazione sono piuttosto deleteri, e non solo da un punto di vista politico. In un ottimo paper di Mian, Sufu e Trebbi, brillantissimi economisti, risulta chiaro che in paesi che diventano più politicamente polarizzati e frazionati dopo le crisi finanziarie, la probabilità di importanti riforme finanziarie è di solito molto più bassa che in tempi normali, in assenza di polarizzazione. L'evidenza da un ampio campione di paesi fornisce un forte sostegno per le ipotesi che a seguito di una crisi finanziaria, gli elettori diventano più ideologicamente estremi e che, indipendentemente dal fatto che fossero inizialmente al potere, le coalizioni di Governo diventano più deboli. Sebbene l'evidenza che aumento di polarizzazione e governi più deboli riducano le chance di riforme al sistema finanziario sia meno chiara, gli autori mostrano come un cocktail fatto di instabilità economica e maggiore “estremismo” possa in effetti avere effetti negativi nello sforzo riformista, proprio quando questo è più necessario.

E, purtroppo, la mente non può che correre all’Europa paralizzata di oggi, laddove forse, più che la disuguaglianza all’interno di ogni singolo stato membro, è la disuguaglianza fra paesi, oltre alla crisi dei migranti, a essere il detonatore di crescenti estremismi e dell’immobilismo nelle riforme strutturali, che riuscirebbero a dare sollievo a una situazione sempre più incancrenita. Questa è, per ora, solo una speculazione che avrà bisogno di altre prove empiriche. È la “maledizione” delle scienze sociali: le risposte, purtroppo, possono giungere quando le contingenze sono già mutate, spesso in peggio. C’è da sperare che, per una volta, l’intuito della politica colmi l’impotenza momentanea dei numeri.