La questione demografica attraversa tutte le questioni politiche aperte del nostro tempo, dalle politiche di bilancio al welfare, dal mercato del lavoro alla sanità, e sfida la conformazione stessa degli Stati moderni, a cominciare dalla pretesa impermeabilità delle loro frontiere. E ci dice che il nostro presente costa troppo, per essere preservato così com’è per le generazioni future.

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Forse abbiamo sbagliato i conti, forse abbiamo rimosso il problema per troppo tempo, sta di fatto che oggi la curva demografica dell’Occidente ci sta presentando un conto da pagare piuttosto salato, e i modi per pagarlo sembrano essere tutt'altro che semplici e intuitivi.

Stiamo invecchiando, e invecchiando diventiamo meno produttivi. Le dinamiche demografiche globali e le loro conseguenze politiche non sono nel medio periodo catastrofiche, come l'incremento di popolazione degli ultimi decenni farebbe presumere, ma è chiaro che l’invecchiamento della popolazione accresce il tasso di dipendenza demografica (rapporto tra popolazione attiva e non attiva) e si scarica sul Pil procapite e quindi sul reddito disponibile di ciascuno di noi. Stiamo andando incontro a una nuova povertà?

Non si tratta solo della questione più evidente, quella previdenziale - chi pagherà le nostre pensioni, e quando? - ma è l’intera infrastruttura pubblica che ha accompagnato la crescita dell’Occidente dal secondo dopoguerra a oggi ad essere messa sotto pressione dalla demografia. L’Europa - ma il problema forse è ancora più tangibile negli USA - ha un grosso problema infrastrutturale: strade, ferrovie, porti, reti di comunicazioni invecchiano, mentre sono sempre più scarse le risorse per ammodernarle. E se fino a ieri si tendeva a scaricare il peso degli investimenti pubblici sulle generazioni future, attraverso il debito, la curva demografica ci dice che oggi questo non si può più fare, perché i giovani di domani non saranno abbastanza, né abbastanza produttivi, per sostenere il costo dei nostri investimenti attuali.

E allo stesso tempo la nostra, di generazione, quella che dovrebbe oggi trarre beneficio da questi investimenti, è già abbondantemente tassata. In alcuni paesi, come il nostro, ben al di sopra delle sue possibilità. Il nostro presente costa troppo per essere preservato così com’è per le generazioni future.

La questione demografica attraversa tutte le questioni politiche aperte del nostro tempo, dalle politiche di bilancio al welfare, dal mercato del lavoro alla sanità, e sfida la conformazione stessa degli Stati moderni, a cominciare dalla pretesa impermeabilità delle loro frontiere. E al tempo stesso sfida la nostra capacità di proporre soluzioni al di fuori di schemi che sembrano invecchiare insieme a noi: “più debito, per far finanziare gli investimenti pubblici!” Ma sulle spalle di chi? “Meno tasse, per far ripartire l’economia!” Ma a quale prezzo, per la tenuta delle infrastrutture che garantiscono il nostro benessere?

La sfida della demografia è quindi prima di tutto una sfida alla nostra razionalità, alla nostra capacità di saper sfruttare l’innovazione per costruire infrastrutture sempre più leggere ed efficienti - una sanità 3.0, ad esempio. Riguarda i nostri limiti umani, essendo come società costretti ad accettare, insieme a una vita media più lunga, una più lunga vecchiaia, un tempo “improduttivo” maggiore di quello produttivo. E mette in discussione i nostri pregiudizi, che oggi impediscono di cogliere l’opportunità dell’integrazione e della libera circolazione - delle merci e dei capitali, certo, ma anche e soprattutto delle persone - l’unica via per perseguire una migliore allocazione delle risorse - tutte, compreso il lavoro.

Oppure possiamo continuare a costruire muri sempre più alti, tra Stati, tra monete, tra recinti corporativi eretti a tutela di interessi di brevissimo periodo, tra lavoratori assistiti e precari, tra pensionati di oggi e pensionati di domani. L’orizzonte temporale delle legislature, la durata media dei governi costituiscono un potente incentivo a rimuovere il problema oggi per rimandarlo ad un tempo nel quale la responsabilità delle decisioni sia demandata ad altri. La nostra impressione è però che quel tempo sia già arrivato, che gli “altri” siamo noi, e che il conto da pagare ci sia stato già servito.