Il welfare italiano, sbilanciato verso le pensioni, non ha retto alla prova della crisi. Al Movimento Cinque Stelle va dato atto di aver posto, seppure in maniera un po’ confusa, il problema di come estendere alcune garanzie. Tuttavia restano molte domande: è meglio istituire un reddito di cittadinanza o un reddito minimo, che funga parzialmente da sussidio di disoccupazione? E, se bisogna erogarlo a seconda delle fasce di età, perché privilegiare quella in cui la povertà è aumentata di meno?

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Il welfare italiano, inutile negarlo, si trova ad un bivio che probabilmente determinerà le politiche sociali e influenzerà i comportamenti dei cittadini negli anni o addirittura nei decenni a venire.

La lezione appresa negli ultimi anni è che il sistema assistenziale italiano, per come è strutturato, non è testato per reggere crisi economiche di una certa portata. A ben vedere il ruolo del welfare è proprio questo: minimizzare gli effetti di una situazione di crisi sulle condizioni di benessere delle popolazione. Quale debba essere in questi casi il ruolo dello stato è il quesito che nasce spontaneo. È preferibile lasciare che il mercato si autoregoli? Oppure occorre intervenire con politiche redistributive?

In questo contesto si inserisce il dibattito in corso in Italia già da qualche anno sul reddito minimo, il meccanismo di contrasto alla povertà basato sull’elargizione diretta al cittadino di un emolumento, al sussistere di alcune condizioni. Prima di entrare nel merito, non guasta concentrarsi brevemente sul male che si intende combattere, ovvero la povertà.

Diversamente da quanto si potrebbe pensare, a seguito della crisi non tutti i paesi dell’Unione Europea hanno visto aumentare la percentuale di cittadini in situazione di povertà. Nell’EU-27 la percentuale di persone a rischio di povertà o esclusione sociale nel 2014 è stata del 24,4%, identica al 2007 e in diminuzione rispetto agli anni pre-crisi. Se consideriamo la sola Eurozona invece la povertà è aumentata dal 21,7% al 23,3%.

Per quanto riguarda l’Italia, è necessario operare una distinzione tra povertà relativa e assoluta: alla prima categoria appartengono le famiglie (o gli individui) che hanno difficoltà a fruire di beni e servizi in riferimento al livello economico medio del Paese. La povertà assoluta è definita invece come l’incapacità di acquisire beni e servizi essenziali.Considerando il periodo 2007-2014, gli individui in condizione di povertà relativa sono passati dal 10,5% al 12,9%, mentre le famiglie dal 9,9% al 10,3%. Parlando di povertà assoluta, nello stesso periodo gli individui sono passati dal 3,1% al 6,8%, e la famiglie dal 3,5% al 5,7% .

Un paio d’anni fa – coerentemente con le sue linee programmatiche – il Movimento 5 Stelle ha depositato al Senato il disegno di legge 1148 volto ad istituire il “reddito di cittadinanza”. In realtà quello proposto è piuttosto un reddito minimo, in quanto il reddito di cittadinanza è un sussidio di carattere universale. La proposta grillina, attualmente in fase di discussione a Palazzo Madama, è riservata a tutti i cittadini italiani con più di diciotto anni e con un reddito inferiore alla soglia di rischio di povertà, cioè inferiore ai 6/10 del reddito mediano calcolato dall’Eurostat.

Tali soggetti sarebbero beneficiari di un’integrazione al reddito soglia, stabilito in base al numero dei componenti del nucleo familiare. Guai a parlare di assistenzialismo per i supporter di questa proposta: il provvedimento intende attribuire un ruolo chiave ai centri per l’impiego, oltre a coinvolgere i destinatari attraverso politiche attive del lavoro. Il diritto a fruire del reddito minimo decade qualora si dovessero rifiutare tre proposte di lavoro, ci si dimettesse senza giusta causa dal posto di lavoro per due volte in un anno o venissero meno le condizioni reddituali.

Per chi crede nell’efficacia delle politiche redistributive, la proposta del M5S ha avuto l’indiscusso merito di osare un cambiamento di paradigma nella concezione del welfare, non inteso più come un “salvagente” da utilizzare solo in casi di estrema necessità (ad esempio, la perdita del lavoro), ma piuttosto uno strumento strutturale di contrasto della povertà. Tuttavia i limiti e i punti oscuri non mancano.

Innanzitutto, come osservato da Tito Boeri, il disegno di legge sembra configurare un diritto individuale al reddito minimo, tant’è che ciascun membro della famiglia deve presentare singolarmente domanda per accedervi, tuttavia il reddito del richiedente influenza la possibilità che altri membri del nucleo accedano al contributo. Può così capitare che, paradossalmente, famiglie con redditi totali e numero di componenti identici si vedano accordato o negato il reddito minimo in base alla distribuzione del reddito tra i componenti.

I costi, quantificati in circa diciassette miliardi, rappresentano un altro nodo importante per la fattibilità dell’operazione. Le risorse andrebbero reperite principalmente tramite spending review (7,5 miliardi) e da un mix di interventi fiscali e riduzione di privilegi. Ciò che lascia più perplessi tuttavia è l’impatto culturale che potrebbe causare l’introduzione di una misura simile in Italia: i fruitori del reddito minimo risulterebbero demotivati rispetto alla ricerca di una nuova occupazione, sebbene formalmente alla ricerca di un impiego? E i centri per l’impiego riuscirebbero a gestire in maniera proficua l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, vigilando su eventuali situazioni anomale?

Un altro approccio al tema è quello adottato da Tito Boeri, attuale presidente dell’INPS. Nel documento pubblicato di recente dall’Istituto, Non per cassa, ma per equità, viene proposta l’introduzione di un SIA (sostegno di inclusione attiva) di 500 euro destinato agli over 55 senza lavoro. La ratio della scelta degli ultracinquantacinquenni risiede nel fatto che questi sembrano essere la categoria più debole dopo la crisi: scarsamente istruiti, debolmente formati, fanno fatica una volta fuori dal mercato del lavoro a reinserirsi. Ipotizzando un take up del 100% i costi non sono indifferenti ma nemmeno mostruosi, e raggiungono i 4,1 miliardi nel 2019; la misura sarebbe finanziata in parte da un riordino delle prestazioni assistenziali, e in parte dal ricalcolo delle pensioni alte (>3.500 euro) con il sistema contributivo.

Anche la proposta di Boeri ha dei limiti. La scelta della categoria pare basata più su criteri di giustizia sociale che di effettivo contrasto alla povertà: se consideriamo il 2007 come anno di riferimento la fascia 55-64 anni ha visto un aumento dello 0,6% della povertà relativa, contro il +6,5% dei <34enni, +4,5% tra i 35-44enni, e +2,4% tra i 44-54enni. Anche per quanto riguarda la povertà assoluta la categoria degli over 55 risulta la meno colpita, con un +2,5% rispetto al 2007, contro +6,4% dei <34enni, +4,0% dei 35-44enni e +3,4% tra i 44-54enni.

Nei suoi piani Boeri sembra voler idealmente riparare al “torto” subìto dai pensionandi esodati: considerata l’assenza di una vera e propria condizionalità alla percezione del SIA, questo si configura come un vero e proprio scivolo verso la pensione. Risultato: sulle politiche sociali il governo non si lascia dettare la linea da soggetti esterni.

Il contrasto alla povertà è un principio nobile, ma rischia di sposarsi con la proverbiale scarsa attitudine al lavoro degli italiani. D’altro canto, se si decide di selezionare la platea è opportuno farlo secondo criteri oggettivi, e non meramente politici. La riforma del welfare s’ha da fare?