L'Europa che si rinchiude è anche un'Europa che si divide. L’antieuropeismo è il sintomo della ripresa di un conflitto “freddo”, ma non puramente negoziale, tra gli stati europei. L’emergenza migratoria espone l’Ue al rischio di un default esistenziale. Non basta la mano invisibile del mercato comune a sciogliere i nodi dell’incomprensione e dell’inimicizia.

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Leonardo Sciascia, per spiegare le ragioni della candidatura con i radicali nel 1979, raccontò un episodio che è anche un singolare apologo sulle rimozioni della politica. "Una volta Pasternak aveva chiesto di parlare con Stalin per perorare la causa di Mandelstam, il poeta che era stato arrestato. E una sera suona il telefono. Pasternak va a rispondere ed era Stalin. Parlano di Mandelstam, molto duramente da parte di Stalin e poi a un certo punto Pasternak dice: 'Vorrei incontrarvi'. 'E perché ?' domanda Stalin. 'Ma - dice Pasternak - per parlare della vita, della morte', e a questo punto sente il telefono che si chiude. Stalin non voleva parlare della vita e della morte, si capisce".

Entrare in Parlamento - nel cuore degli anni di piombo, all'indomani dell'affaire Moro che in seguito avrebbe indagato e risolto in modo straordinariamente eloquente, non solo dal punto di vista letterario - era per lo scrittore siciliano un modo per parlare della vita e della morte a chi riteneva che la politica dovesse essere refrattaria al peso della responsabilità e allo scrupolo per il destino delle vittime designate.

Si capisce - diceva Sciascia - perché Stalin non ne volesse parlare. E, mutatis mutandis, potremmo dire che si capisce perché oggi la principale debolezza europea sia nell’incapacità di tornare a parlarne, facendone un discorso non solo commosso, sulla spinta dell'emozione, come nel caso del piccolo Aylan, ma impegnativo e responsabile dal punto di vista politico e civile.

Ovviamente, le ragioni per cui l’Europa faticosamente balbetta attorno alle questioni fondamentali, entrando in confusione e in conflitto fino a dissolversi ogni volta che deve parlare “della vita e della morte” – cioè delle questioni che implicano una perentorietà morale oggettiva – non dipendono dalla spietatezza totalitaria dei suoi meccanismi o dell’insensibilità psicologica dei suoi protagonisti.

Il silenzio dell’Europa non è il silenzio di Stalin. Non è il silenzio della violenza arbitraria, ma dell’impotenza coatta. Non è il silenzio della dittatura di un potere assoluto, che rifiuta di rendere conto dei propri atti, ma quello della “costituzionale” spoliciticizzazione della legittimità e della responsabilità europea su tutto ciò che ecceda la routine comunitaria.

La vulgata populista addebita l'inefficienza europea all'inerzia delle cosiddette burocrazie di Bruxelles. In realtà, questa debolezza europea è un effetto della resistenza di gran parte dei paesi membri ad accettare un'effettiva integrazione delle scelte di governo sui temi politicamente vitali e “democraticamente sensibili”. La questione migratoria – non la più minacciosa in termini concreti, ma la più dirompente dal punto di vista simbolico – è evidentemente uno di questi.

Un continente culturalmente anestetizzato dall'illusione della fine della guerra e perfino della storia, e dall'avvento di un'età perpetua di liberi e pacifici commerci, oggi mostra di disintegrarsi proprio di fronte al rischio di una minaccia "esistenziale", da cui si riteneva definitivamente affrancato e che oggi è del tutto impreparato ad affrontare, innanzitutto dal punto di vista culturale.

L'esplosione della geografia post-coloniale nel mondo arabo e mediorientale, l'espansionismo ideologico islamista, il ritorno della Russia a una politica di potenza e minaccia, le tensioni sociali interne legate alla lunga crisi economica e infine un'inasprita pressione demografica, legata a crisi umanitarie di dimensioni imponenti; tutto obiettivamente congiura per favorire una reazione di isolamento nazionalista, che mette in crisi, prima che le forme consolidate di rapporto con l'esterno dell'Ue, l'Unione stessa come forma dell'identità politica europea e l'apertura del suo spazio comune. L'Europa che si rinchiude è anche un'Europa che si divide.

In molti paesi Ue, sulla spinta delle minacce legate ai fenomeni migratori e alla dipendenza demografica, il nuovo pensiero mainstream è anti-europeo, non perché l’Europa si sia fatta più invadente sulle questioni ultime dell’identità e della sicurezza degli stati membri, che si sono sempre considerate pacificamente “non-europee”, ma perché non riesce ad approntare le barriere per garantire l’effettività di questa salvaguardia. Si invocano la centralità e la sacralità dei confini, nel momento in cui non si riesce più a difenderli, accusando però l’Europa di averli voluti sguarnire.

Dopo il crollo del Muro di Berlino, l’Europa ha offerto un patto costituzionalmente inclusivo e culturalmente relativistico sia agli stati di più recente integrazione, per cui l’adesione all’Ue, come quella alla Nato, ha segnato la vera fine della transizione post-Guerra Fredda, sia a milioni di europei di prima e seconda generazione, arrivati sul continente risalendo controcorrente le vecchie rotte coloniali, attratti da prospettive di lavoro e di vita migliori di quelle che si lasciavano alle spalle. In questo duplice ed epocale processo di allargamento, interno ed esterno, l’Unione e i paesi membri hanno confidato che la mano invisibile del mercato comune potesse sciogliere i nodi dell’invidia, dell’incomprensione o dell’inimicizia.

L’idea provvidenzialistica che i benefici economici della coesione europea avrebbero, in qualche modo, pagato i costi di aggiustamento legati all’ingresso di milioni di “nuovi europei” e garantito il ruolo dell’Unione negli equilibri globali si è infranta ben prima che, negli ultimi mesi, l’emergenza migratoria mandasse in cortocircuito il processo politico europeo e paralizzasse quello comunitario. L’intero continente è attraversato da anni da fenomeni di sempre più radicale separatismo politico, sia esso nazionale, economico, civile o religioso. Ora l’allargamento geografico e demografico dell’Ue è esposto al rischio di un default civile definitivo e appunto esistenziale.

L’Europa – e ciascun paese membro, nel suo rapporto con gli altri paesi europei e con le istituzioni comuni – è intrappolata nell’impossibilità di tacere oltre sulle cose di cui, pervicacemente, ha preferito e preferisce non parlare. Un silenzio che è iniziato, all’indomani di Maastricht, con la guerra nella ex Jugoslavia, e che è proseguito per oltre un ventennio, fino allo smembramento dell’Ucraina punita per il suo europeismo, in una sorta di vita parallela, in un mondo senza guerra e senza nemici. La babele di linguaggi ostili che oggi dilania l’Europa è figlia di questo silenzio e della rimozione della radice tragica dell’unità europea e della scelta (politicamente creativa, non scontata, non “necessaria”) di un destino comune come alternativa a un destino di nuove divisioni e guerre fratricide.

L’azzardo morale di cui oggi si presenta il conto più salato agli europei non è quello dell’indisciplina finanziaria, che è stata arginata proprio perché presidiata non solo da un insieme di regole, ma di principi non derogabili. È invece quello del “fai-da-te” strategico, che ha cronicizzato la minorità politica europea e incendiato le vanità e le frustrazioni politiche nazionali di stati formalmente sovrani, ma disarmati di fronte a qualunque minaccia globale.

L’antieuropeismo europeo è innanzitutto il sintomo della ripresa di un conflitto “freddo”, ma non puramente negoziale, tra gli stati europei. L’Europa sale sul banco degli imputati a rispondere delle accuse che gli stati muovono bellicosamente gli uni contro gli altri, lungo linee di divisione o di alleanza sempre meno coerenti con vere appartenenze ideologiche. Bruxelles è il campo in cui i paesi europei stanno tornando a farsi, sia pure solo politicamente, la guerra.

Ora, evidentemente, non si tratta più di negoziare su base nazionale i saldi dell’integrazione economica. Si tratta di ripartire i costi dell’instabilità strategica che ha investito l’Europa. Non esiste la possibilità di ripristinare una vera solidarietà europea, senza fondarla su basi nuove. L’Europa non può spartirsi i profughi – e ragionare e decidere responsabilmente della loro vita – con la stessa logica con cui era abituata a litigarsi le quote della PAC, senza rimettere mano alle parole e alle questioni rimosse.