Gli ultimi sviluppi della crisi migratoria in Europa lo dimostrano: la libertà di movimento degli europei non può pacificamente coesistere con la negazione della libertà di movimento degli extra europei. Se c’è qualcosa su cui tutti gli Stati sono d’accordo è che le norme vanno cambiate. In senso più o meno “europeo”? Questo resta da stabilirsi.

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La crisi umanitaria che sta inondando l’Europa di migranti, provocando una speculare crisi politica per ora solo palliata dalle offerte unilaterali di accoglienza tedesche, interroga su quale sia il livello di realizzazione del cosiddetto spazio di libertà, sicurezza e giustizia nell’UE.

Il tema, niente affatto accademico, ha dei risvolti politici enormi. Se n’è avuta prova negli ultimi mesi, quelli di maggiore tensione polemica tra gli Stati Membri e di pressione migratoria ai confini esterni dell’Unione. In questo periodo i cortocircuiti politico-istituzionali nella gestione dei flussi hanno rischiato (e tuttora rischiano) di far collassare per intero il sistema Schengen, per ora momentaneamente sospeso in alcuni Stati Membri tra cui, appunto, anche la stessa Germania.

Lo stabilimento di un’area di libertà, sicurezza e giustizia nell’Unione, sintetizzabile come il radicamento di uno spazio giuridico e un ordine pubblico europei, è un obiettivo di policy incorporato nei trattati e pienamente comunitarizzato da Lisbona in poi. Dispone infatti l’articolo 3, comma 2 del TEU:

“L'Unione offre ai suoi cittadini uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere interne, in cui sia assicurata la libera circolazione delle persone insieme a misure appropriate per quanto concerne i controlli alle frontiere esterne, l'asilo, l'immigrazione, la prevenzione della criminalità e la lotta contro quest'ultima”.

Questa norma costituisce il frutto di un processo di comunitarizzazione graduale e tutt’altro che compiuto.

Vigente il trattato di Maastricht, queste politiche afferivano al cosiddetto terzo pilastro, ed erano assoggettate a procedure intergovernative anziché sovranazionali, a differenza di quelle che già allora governavano il mercato comune. Il successivo trattato di Amsterdam aveva poi separato i destini di alcune di esse (libertà di movimento, asilo, immigrazione, cooperazione giudiziaria in materia civile) da quello della cooperazione in materia di polizia e sicurezza: le prime diventavano materia di azione ordinaria, regolata da procedure comunitarie, mentre le seconde rimanevano “terzo pilastro”, dunque soggette a procedura intergovernativa.

Il trattato di Lisbona, come accennato, ha fatto cadere la struttura a pilastri e ha pienamente integrato la materia dei visti, degli asili, dell’immigrazione e della libertà di circolazione nell’architettura giuridica ordinaria dell’Unione.

Ciò vuol dire, ad esempio, che qualora ci si decidesse a superare le norme del regolamento di Dublino con nuove regole in materia di immigrazione e di asilo, le istituzioni europee ne avrebbero il potere, seguendo la procedura legislativa ordinaria. Con la ulteriore conseguenza che, essendo questa oggi un’area di competenza concorrente tra l’Unione e gli Stati Membri, una volta che la prima esercitasse la sua competenza in materia, i secondi non potrebbero più intervenire autonomamente sulle regole da essa stabilite, ma solo riempire, a limite, i vuoti lasciati dall’intervento armonizzatore dell’UE (breve inciso: il regolamento di Dublino II è stato modificato, nel 2013, ma adoperando una procedura emergenziale, non ordinaria, prevista dal TFUE).

Fin qui il diritto. Poi c’è la politica, che nelle materie concernenti asilo e immigrazione continua a conservare il pallino del gioco nelle mani degli Stati Membri, i quali prevengono o boicottano azioni indesiderate intraprese dalla Commissione Ue nell’esercizio della sua iniziativa.

Ciò rimanda indietro alla ratio costitutiva dell’area di libertà, sicurezza e giustizia dell’UE, nata come composto di policies tra loro eterogenee sulle quali gli Stati Membri fin da subito hanno inteso conservare il proprio predominio in termini di iniziativa e discussione, essendo tali materie connaturate all’esercizio classico di sovranità da parte dei suddetti Stati.

Il fatto che da Maastricht in poi queste materie siano divenute un affare comunitario rispondeva all’obiettivo di introdurre “misure compensative” alla liberalizzazione dei movimenti delle persone nell’UE, con conseguente abolizione delle frontiere interne. Dal momento che all’interno dello spazio economico europeo diventava possibile circolare liberamente, era necessario compensare gli effetti di spillover potenzialmente negativi in termini di sicurezza, rafforzando l’azione comune sulle frontiere esterne dell’Unione e stabilendo un regime condiviso, ad esempio, in materia di asilo.

Pertanto, mentre la circolazione dei cittadini comunitari veniva incentivata e assoggettata ad un regime liberale, le norme poste a presidio dei confini esterni, incluse le varie forme delle regole di Dublino, perseguivano l’obiettivo opposto, quello cioè di disincentivare gli ingressi e di negare ai migranti la scelta dello Stato a cui inoltrare richiesta d’asilo, rimettendo la responsabilità di esaminare tali domande sullo Stato d’ingresso. Sull’efficacia di tali ultime norme non vanno spese troppe parole, ché è sotto gli occhi dei più.

È però interessante notare come l’emergenza migratoria in corso abbia fatto definitivamente crollare l’illusione che all’interno di uno spazio economico e giuridico comune possano coesistere due regimi normativi strutturalmente confliggenti tra loro: la libertà di movimento degli europei non può pacificamente coesistere con la negazione della libertà di movimento degli extra europei, in assenza di una reale politica condivisa tra gli Stati Membri e di una reale assunzione di responsabilità di tutti sulla gestione delle frontiere esterne.

È evidente che il meccanismo di allocazione degli oneri e delle responsabilità preconizzato da Dublino entra in tilt nell’istante stesso in cui gli Stati di approdo dei migranti smettono di adempiere ai propri obblighi di accoglienza: è accaduto, va detto, regolarmente in Italia con migliaia di migranti spesso lasciati uscire dal paese senza che venisse effettuata la prevista registrazione; accade in Ungheria e Repubblica Ceca, tra Germania e Austria, ed è accaduto a Calais, all’ingresso dell’Eurotunnel, non più tardi di due mesi fa, provocando una serie di disfunzioni e black-out politici tra Francia e Regno Unito.

Cambia qualcosa adesso che la Germania, paese leader dell’Unione, ha invertito la tendenza politica dichiarandosi unilateralmente pronta ad accogliere 800.000 profughi siriani? La risposta è “dipende”. Formalmente restano infatti in vigore le norme di Dublino II e III. E la stessa cancelliera Merkel, pur nella manifestata disponibilità ad accogliere profughi e a contribuire alle spese organizzative degli Stati di frontiera, non pare deflettere dal principio che siano questi ultimi a doversi fare carico della responsabilità di identificare e registrare i richiedenti asilo. Tanto più che non ha avuto molte remore a sospendere l’applicazione del trattato di Schengen quando il flusso di rifugiati è aumentato.

Lo scatto in avanti tedesco può però costituire l’input politico dirimente per il pieno utilizzo degli strumenti e delle procedure comunitari vigenti nell’area di libertà, sicurezza e giustizia dell’UE, e cioè indurre i partner europei a delegare – politicamente – la gestione del dossier a Bruxelles, per mutare il segno politico di merito dei regolamenti in materia.

Se ciò accadesse, si aggiungerebbe un altro importante tassello al processo di completamento dello spazio giuridico europeo, perché a un’azione dell’Unione corrisponderebbe l’arretramento dell’azione statuale sui punti legiferati e il presidio, da parte di Commissione e Corte di Giustizia UE, del nuovo perimetro di competenza sostanziale comunitaria.

Rimarrebbe però un potenziale, non marginale, nervo scoperto. Ciascuna azione di delega, per quanto robusta, razionale ed efficace nel merito delle policies che produrrebbe, rimarrebbe attaccabile dalle forze antisistema sul piano politico domestico qualora non vi fosse una difesa politica da parte degli Stati Membri o, in alternativa, in assenza di una revisione dei trattati tale da modificare i criteri di legittimazione politica delle istituzioni comunitarie.

E mentre il mercato comune poté essere preparato, ideato e realizzato da élite di tecnocrati e istituzioni che ricevettero, nel tempo, legittimazione politica attraverso gli output prodotti da quell’iniziativa (cioè il benessere e la libertà da esso provocati), nel caso delle politiche migratorie e, più in generale, del radicamento di un ordine pubblico europeo, la legittimazione politica ad agire è necessaria fin dagli input, che sono gli Stati Membri o i cittadini.

Ci troviamo quindi di fronte a una crisi che, come spesso accaduto nella storia europea, potrebbe tramutarsi in occasione di ulteriore avanzamento del processo di integrazione e democratizzazione dell’Unione. Oppure – e il rischio non va sottaciuto – di disintegrazione di pezzi del cosiddetto acquis, quali Schengen e le libertà che esso presidia.