La corruzione in Italia porta sprechi e inefficienze, ma di gran lunga maggiori sono gli sprechi annidati nella spesa pubblica "legale" per opere inutili, che, sotto la foglia di fico dell' "interesse pubblico", viene finanziata con l'emissione di debito e, ormai da un decennio, non è controllata da nessuno, neanche dall'Istat.

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Quante opere pubbliche sono state costruite in Italia nell'ultimo anno? E nell'ultimo decennio? Qual è il loro valore? Purtroppo, con disappunto di chi seguendo Einaudi vorrebbe conoscere, almeno per deliberare ex postsi tratta di dati sconosciuti, a causa della scarsità e incompletezza delle informazioni disponibili. Si può stimare, in base al bilancio dello Stato, a quelli delle amministrazioni pubbliche territoriali e delle aziende pubbliche che realizzano investimenti infrastrutturali (Anas e RFI), quanto è stato speso per le opere pubbliche; tuttavia, se si sposta l'attenzione dalla spesa pubblica in sé a quanto è stato realizzato grazie a essa, le difficoltà di quantificazione crescono in maniera esponenziale. In sostanza, sappiamo quanto spendiamo, ma non abbiamo idea di quante opere pubbliche riusciamo a realizzare attraverso quella spesa.

Questa condizione di ignoranza, paradossale perché impedisce ogni seria valutazione di congruità, confligge con una lunga tradizione di rilevazione delle opere, le cui radici risalgono all'Ottocento, dopo pochi decenni dal compimento dell'unità nazionale. Nel ventennio 1878-98, infatti, i dati sulle opere realizzate furono raccolti in maniera sistematica e pubblicati dal Ministero dei lavori pubblici, con riferimento sia agli importi di spesa che ai risultati quantitativi conseguiti. Nel 1925 il Ministero delle finanze ricostruì, utilizzando dati di tipo contabile, una serie storica per l'intero periodo 1862-1924. Inoltre dal 1926 il Ministero dei lavori pubblici effettuò, sotto il monitoraggio dell'Istat, rilevazioni periodiche, sia finanziarie che fisiche, sui lavori pubblici eseguiti, e nel 1932 fu l'Istat stesso, in collaborazione col ministero, ad assumersi il compito.

La rilevazione delle opere pubbliche effettuata dall'Istat è stata tuttavia sospesa nel 2004 "in seguito alle difficoltà riscontrate nel rispettare le scadenze stabilite" per la raccolta e diffusione delle informazioni, come spiega l'istituto stesso in diversi suoi documenti, e "all'esigenza di ridurre il carico statistico sulle stazioni appaltanti". Sembra in sostanza che le stazioni appaltanti, avendo evidentemente altre priorità, non fossero molto sollecite e interessate a fornire puntualmente all'Istat i loro dati... Siamo pertanto nelle condizioni di conoscere con precisione i dati sulle opere pubbliche realizzate in periodi anche molto distanti da noi, ma non quelli relativi agli ultimi 10-15 anni.

In tale periodo, peraltro (e ancora prima, a partire da Tangentopoli), le opere pubbliche sono state oggetto in Italia di molte indagini giudiziarie, finalizzate ad accertare e punire reati di corruzione associati alle medesime. Qual è stato l'esito? L'impressione è che sia stata scoperta solo una quota limitata di tali episodi, punita solo una parte limitata dei casi scoperti e riportato nelle casse pubbliche quasi nulla dei proventi della corruzione e nulla, se non un impercettibile infinitesimo, degli sprechi compiuti. Il problema è che l'ordine di grandezza dello spreco di risorse pubbliche è un multiplo molto elevato dell'entità della corruzione. Per ogni euro riconducibile alla seconda ve ne sono almeno trenta, più probabilmente cinquanta e forse persino cento di spesa pubblica inutile, che la magistratura non potrà mai recuperare perché non è suo compito vegliare sull'efficienza della spesa, bensì solo sulla sua legalità.

Purtroppo la spesa pubblica per finalità inutili è perfettamente legale, a condizione che sia realizzata con le procedure formali previste dalle norme e dopo aver messo su di essa l'etichetta - del tutto discrezionale, in quanto non ne è richiesta dimostrazione - di 'interesse pubblico'. Per farlo basta una decisione a maggioranza dell'organismo politico competente: qualsiasi cosa sia in tal modo collocata nell'area dell'interesse pubblico, fossero anche nuove piramidi od opere egualmente faraoniche, diviene automaticamente 'meritoria' e tale da giustificare tutto il prelievo fiscale necessario a finanziarla, extracosti evitabili compresi. Dimostrare che la tale opera valga per i cittadini più dei soldi necessari per realizzarla, vale a dire il giudizio che noi diamo per ogni scelta privata di spesa, non è richiesto. E, non essendo richiesto, è molto probabile, nel nostro paese, che praticamente ogni opera valga di meno. Ma in tal modo il benessere collettivo diminuisce, in effetti, ogni qual volta un'opera pubblica viene realizzata con la motivazione di accrescerlo.

Date queste premesse, la spesa totale per opere pubbliche può essere concettualmente scomposta in tre categorie 'qualitative' differenti: (1) i costi necessari per la realizzazione delle opere utili; (2) gli extracosti, evitabili, sostenuti per la realizzazione delle opere utili; (3) infine i costi e gli extracosti, entrambi evitabili, generati dalla realizzazione di opere pubbliche inutili. È possibile stimare, quanto meno per ordine di grandezza, l'ammontare della prima categoria, la spesa necessaria per opere utili rispetto all'ammontare congiunto delle rimanenti? La risposta è senz'altro positiva: basta individuare uno o più paesi-benchmark per i quali si possa ragionevolmente ritenere che abbiano adottato decisioni economiche razionali sulle opere pubbliche e abbiano realizzato le medesime senza sprechi macroscopici. Una restrizione necessaria per superare l'assenza di statistiche adeguate in Italia è quella di limitare il confronto agli investimenti pubblici per infrastrutture di trasporto, che tuttavia rappresentano una quota molto elevata della spesa totale per opere pubbliche.

Il paragone di più facile realizzabilità, principalmente per la disponibilità dei dati necessari, risulta quello con la Francia. Si tratta di un paese di cui è riconosciuta l'alta qualità delle reti, stradali e ferroviarie, il primo a dotarsi in Europa di un esteso sistema ferroviario ad alta velocità. Inoltre la Francia è un paese a tradizionale elevato intervento pubblico, paragonabile per estensione a quello italiano, anche se, pur costoso, è considerato qualitativamente molto efficiente, a differenza del nostro.

Quanto ha speso la Francia negli ultimi anni e nell'ultimo decennio per investimenti pubblici in infrastrutture di trasporto? L'edizione 2013 dei Comptes des Transports, pubblicata a luglio 2014, riporta una spesa pubblica totale per investimenti in infrastrutture di trasporto pari a 12,3 miliardi di euro per il 2012, ultimo anno disponibile. Nel decennio 2003-12 tale spesa è stata invece pari, complessivamente, a 104 miliardi di euro, corrispondenti a 10,4 miliardi in media d'anno. A tali dati va sommata la spesa per investimenti direttamente sostenuta dal gestore della rete ferroviaria, RFF, che non fa parte della pubblica amministrazione, trattandosi di un ente pubblico economico: si tratta di 4,9 miliardi nel 2012 e di 31 miliardi nell'ultimo decennio, corrispondenti a 3,1 miliardi in media d'anno. Sommando le due tipologie di investimento si ottiene un dato per tutte le infrastrutture di trasporto pari a 17,2 miliardi nell'ultimo anno e a 135 miliardi nell'ultimo decennio, corrispondenti a 13,5 miliardi in media d'anno.

Per l'Italia il Conto Nazionale dei Trasporti 2012-13 riporta invece una spesa pubblica complessiva in conto capitale pari a 12,1 miliardi di euro nel 2012. Ricostruendo a ritroso i dati per l'ultimo decennio si ottiene un valore totale di 178 miliardi, corrispondente a 17,8 miliardi in media d'anno. Gli investimenti pubblici italiani dell'ultimo decennio, nei trasporti, risultano pertanto maggiori di 43 miliardi, corrispondenti a un +32%, rispetto a quelli francesi. In rapporto al Pil, dato che quello nominale francese è di un terzo maggiore del nostro, il dato italiano sale a un +43%. Tuttavia non vi sono ragioni in grado di giustificare investimenti pubblici nei trasporti maggiori in Italia rispetto alla Francia. Con un numero di abitanti di poco superiore al nostro, infatti il Paese d'Oltralpe è molto più esteso e necessita per tale ragione di reti stradali e ferroviarie molto più grandi. A fronte di una superficie maggiore dell'80% rispetto a quella italiana, la rete ferroviaria ha un'estensione doppia e la rete stradale complessiva un'estensione più che doppia. Trattandosi di due paesi già ampiamente dotati d'infrastrutture, si può ragionevolmente ritenere che il fabbisogno di nuovi investimenti nei trasporti sia proporzionale all'estensione delle reti già esistenti. Si tratta infatti di investimenti incrementali, migliorativi e sostitutivi, ma non di nuova infrastrutturazione in paesi sottodotati.

Se questa interpretazione è accettabile, l'investimento pubblico italiano nei trasporti dovrebbe risultare, in media d'anno, la metà di quello francese, quanto meno in termini di quantità fisica di investimenti. Si deve però tener conto di una ragionevole maggior onerosità degli investimenti italiani in conseguenza dell'orografia, che in ogni caso non è tale da oltrepassare, a nostro avviso, un +30% nei costi unitari. Se si accettano queste valutazioni si perviene a una facile stima di quello che dovrebbe essere l'investimento infrastrutturale italiano nei trasporti: il dato medio annuo francese diviso due è pari a 6,8 miliardi, valore che, aumentato del 30% per tener conto dei maggiori costi generati in Italia dall'orografia, diviene pari a 8,9 miliardi annui, esattamente la metà dei 17,8 miliardi di investimenti annui effettivamente spesi in Italia nell'ultimo decennio. L'Italia risulterebbe pertanto aver speso il doppio di quello che avrebbe dovuto spendere. Nove miliardi in più ogni anno fanno 90 miliardi in più nell'ultimo decennio e, se è accettabile mantenere la stessa stima annua, circa 200 nei 22 anni che sono trascorsi da quando scoppiò Tangentopoli, un evento che avrebbe dovuto insegnarci a stare molto più attenti con la spesa.

Tale cifra non rappresenta, tuttavia, l'intero onere evitabile a carico della finanza pubblica. Infatti la spesa per investimenti, compresa quella non giustificata, viene finanziata con l'emissione di debito: dunque occorre conteggiare, ogni anno, anche la spesa per interessi. Questa, sulla cifra precedente di 200 miliardi gradualmente accumulatasi nel tempo dal 1992 a oggi, ammonta, se stimata in base al costo medio annuo dell'intero debito pubblico, a ulteriori 115 miliardi. Il conto totale dal 1992 ad oggi si attesterebbe pertanto a 315 miliardi, corrispondenti a poco meno di 20 punti percentuali nel rapporto debito/Pil e a circa un terzo dell'eccesso del nostro debito rispetto al vincolo di Maastricht. Non male, per un Paese in crisi economica conclamata.