Dopo l'ennesima tirata d'orecchi europea, si ritorna a parlare di diritto ad abortire e di legge 194, come fossero gli anni settanta. Di fronte alla preponderanza di medici obiettori nel pubblico, perché non eliminare le restrizioni alle case di cura private?

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Il 7 marzo scorso, il Comitato europeo dei Diritti sociali (CESR) del Consiglio d'Europa ha pubblicato un documento di condanna dell'Italia, riguardo lo spinoso tema dei medici che rifiutano di praticare l'aborto nelle strutture pubbliche. La decisione è stata determinata da un esposto della sezione europea della International Planned Parenthood Federation (IPPF), una ONG fondata a Mumbai (India) che lavora in 172 Paesi e con vari uffici regionali sparsi per il mondo, rappresentata per l'occasione dall'Avv. Prof. Marilisa D'Amico e dall'Avv. Benedetta Liberali del foro di Milano.

Il documento, approvato nello scorso settembre con 14 voti favorevoli e uno contrario, è sufficientemente chiaro nel condannare "la mancanza di disposizioni legali specifiche che riguardino i mezzi con cui assicurare un'equa distribuzione fra personale medico obiettore e non-obiettore", una mancanza che "irragionevolmente sacrifica il diritto di una donna alla libertà di compiere le proprie scelte in materia di procreazione, salute fisica e mentale e vita". Più nello specifico, l'Italia viola gli articoli 11 (diritto di protezione della salute) ed E (non discriminazione) della Carta sociale europea.

Soprattutto riguardo l'articolo E, il comitato esplicitamente scrive che "a causa della mancanza di una presenza garantita di personale medico non-obiettore in tutti gli ospedali pubblici, le donne sono costrette a spostarsi da un ospedale all'altro, in modo da trovare qualcuno che possa garantire loro l'accesso alle procedure di interruzione della gravidanza". Circostanza alla quale si aggiungono valutazioni "economiche": chi è più ricco può infatti permettersi i costi del trasferimento altrove (in Italia o anche all'estero), mentre le donne meno abbienti sono costrette "ad avvalersi di strutture e persone [...] che non garantiscono la piena protezione della salute e il grado di igiene che è richiesta dalle procedure".

Eppure, il numero di "obiettori di coscienza" negli ospedali pubblici continua a salire: secondo l'ultima relazione annuale del Ministero della Salute, la già elevata percentuale iniziale di ginecologi obiettori ha segnato un più 17,3% negli ultimi 30 anni, a fronte di un quasi dimezzamento degli aborti nello stesso periodo. Questi dati però vengono contestati dalle associazioni di medici non-obiettori: Anna Pompili, ginecologa aderente alla Libera associazione italiana ginecologi per l'applicazione della legge 194 (Laiga), ha denunciato al Fatto Quotidiano che le cifre sull'obiezione "che abbiamo raccolto noi, struttura per struttura, sono invece del 91,3 per cento", a fronte del 70,7% di media indicato dal Ministero.

Vengono, inoltre, sottovalutati altri due fattori. Innanzitutto, la distribuzione territoriale complessiva degli obiettori, che penalizza fortemente le donne del Meridione: al Sud si raggiungono punte superiori all'80% fra i ginecologi (85,2% in Basilicata, 83,9% in Campania, 82,8% in Molise, 81,7% in Sicilia) e al 70% fra gli anestesisti (più del 77% in Campania e Molise, 75,6% in Sicilia). Poi c'è la questione delle cosiddette "obiezioni di struttura", ossia gli ospedali in cui è impossibile praticare un aborto per mancanza di ginecologi non-obiettori: su 441 ospedali italiani dotati di un reparto di ostetricia, ben 178 (pari al 40,36%) non permettono di abortire. Qui il fanalino di coda è il Veneto (29 ospedali "obiettori" su 42, il 69,04%), seguita dalla Lombardia (37 su 64, il 57,81%) e dall'Abruzzo (9 su 20, il 45%). E le percentuali scendono ulteriormente se si prendono in considerazione gli ospedali che permettono aborti terapeutici dopo il terzo mese o che adottano la RU486.

Come garantire che, 36 anni dopo la sua promulgazione, la legge 194 venga finalmente applicata? Forse la risposta potrebbe venire da una lieve riforma della legge stessa. Ad esempio, laddove all'articolo 8 disciplina la possibilità di ricorrere alle "case di cura autorizzate dalla regione, fornite di requisiti igienico-sanitari e di adeguati servizi ostetrico-ginecologici", eliminando definitivamente i limiti imposti dalla legge sul numero di interventi e sul numero di giorni di degenza, oppure ancora garantendo la possibilità anche alle strutture non convenzionate, purché rientranti nei criteri di legge, di operare le interruzioni di gravidanza.

In altre parole, si dovrebbe concedere maggiore libertà alle strutture private di operare, soprattutto nelle aree in cui l'obiezione di coscienza è più alta: innanzitutto, perché si tratterebbe di un intervento sanitario, il cui ricorso (in teoria, come abbiamo visto) è garantito e disciplinato dalla legge; secondariamente, perché una maggiore "offerta" di posti letto garantirebbe anche una diminuzione dei costi per chi se ne vuole avvalere. Sicuramente non è questo l'unico punto della 194 su cui si potrebbe intervenire (alcune ottime idee si potrebbero trarre, ad esempio, dal referendum radicale del 1981). Tuttavia, la questione centrale resta quella di garantire, senza eccezioni, a ogni donna la libertà di scegliere se interrompere o meno una gravidanza. Un maggiore intervento dei privati volto a correggere le storture del pubblico non andrebbe affatto a ledere, bensì a rafforzare proprio il diritto di scelta della donna rispetto al nascituro.