La stabilità macroeconomica del paese richiede un passaggio controintiutivo: per portare l'Italia a crescere, bisogna sovvertire l'organizzazione dei servizi e introdurre dinamismo e distruzione creatrice - in una parola, concorrenza. Il prezzo dello sviluppo, qui e oggi, è la "destabilità".

stagnaro

"Un paese che tenti di tassarsi fino alla prosperità è come un uomo che tenga i piedi in un secchio e cerchi di sollevarsi per il manico", diceva Winston Churchill. La legge di Stabilità appena approvata sembra ignorarne sia la fisica sottostante, sia le conseguenze politiche. Se le incertezze macroeconomiche e le confuse dinamiche interne alla maggioranza possono spiegare le cautele del ministro dell'Economia, Fabrizio Saccomanni, esse non giustificano in alcun modo la consapevole, sistematica e testarda rinuncia a sfruttare il principale bacino di crescita economica a disposizione dell'Italia: la concorrenza.

Le ragioni della stagnazione italiana, infatti, sono molteplici e complesse, e vanno dalla bassa qualità del settore pubblico a una pressione fiscale resa più esasperante dalle lungaggini burocratiche e dalle modalità di contrasto all'evasione. Un rilevante ostacolo alla crescita viene da quella che, nel suo ultimo libro, Yoram Gutgeld definisce "inflazione dei servizi": i prezzi dei servizi pubblici sono andati crescendo in questi anni a un ritmo nettamente superiore all'inflazione, contribuendo così a erodere i redditi reali dei lavoratori e la competitività delle imprese.

A questa desolante fotografia esistono però due significative eccezioni: la telefonia (il cui costo è andato declinando sia in termini reali sia nominali) e l'elettricità (rimasta pressoché costante in termini reali, e il cui prezzo si è ridotto se si escludono le componenti tariffarie). Interrogarsi sul perché le bollette telefonica e della luce abbiano seguito una traiettoria divergente rispetto a tutte le altre può fornire una parte importante della risposta all'apparente contrasto tra rigore dei conti e crescita economica. Infatti, le lezioni che ne derivano spiegano perché e come sia possibile innescare la crescita senza compromettere (e anzi rafforzando) l'equilibrio dei conti pubblici. In una parola, rendendo "stabile" un equilibrio che oggi appare precario e condizionato da manovre straordinarie dal lato del prelievo.

I settori elettrico e della telefonia si distinguono perché, in buona parte d'Europa, sono stati interessati da una forte ondata di liberalizzazioni. Per trovare un caso analogo bisogna rivolgersi ai trasporti aerei, dove la concorrenza indotta dalle direttive comunitarie può aver messo in ginocchio i vecchi "campioni nazionali", ma ha senza dubbio aperto un nuovo mondo ai consumatori. La libertà di scelta, l'obbligo di conquistare le quote di mercato e la libertà di prezzo hanno scatenato un'ondata di investimenti, innovazione e riduzioni di prezzo senza precedenti, che hanno migliorato la qualità della vita di noi tutti. Questa è la buona notizia. La cattiva notizia è che queste stesse rivoluzioni non sono arrivate a una miriade di altri servizi ugualmente importanti - dai trasporti ai servizi pubblici locali - e che, anche dove i cambiamenti ci sono stati, spesso l'Italia è stata tra gli Stati membri più riottosi al cambiamento.

Lo si vede bene dall'Indice delle liberalizzazioni dell'Istituto Bruno Leoni, che ogni anno misura il grado di concorrenza in vari settori dell'economia italiana, rispetto ad altri paesi europei. Nel 2013, il nostro paese è risultato quello meno aperto alla concorrenza nell'intera Europa a 15, con un punteggio complessivo pari al 28%. Il paese più liberalizzato, il Regno Unito, arriva invece all'84%. Una precisazione: per ciascun settore, al paese più liberalizzato viene attribuito un punteggio pari a 100; al paese meno liberalizzato, zero. Il risultato complessivo è frutto della media aritmetica tra i risultati conseguiti in nove diversi settori economici (distribuzione dei carburanti, gas, lavoro, elettricità, poste, telecomunicazioni, televisioni, trasporti aerei, ferrovie). La distanza tra il 28% italiano e l'84% britannico (o, se preferite, tra il 28% italiano e il 53% medio europeo) dà la misura delle opportunità perse negli scorsi anni, o dell'entità e della quantità delle rendite incamerate dai produttori dei servizi pubblici. Per "monetizzare" questo costo, basta rivolgersi a un'indagine della Banca d'Italia risalente ad alcuni anni fa, ma ancora attualissima, secondo cui la rinuncia ad aprire alla competizione i mercati dei servizi costa all'Italia circa l'11% del Pil.

Se le cose stanno così, la stabilità macroeconomica del paese richiede un passaggio controintiutivo: per portare l'Italia a crescere, bisogna sovvertire l'organizzazione dei servizi e introdurre dinamismo e distruzione creatrice - in una parola, concorrenza - in tutti quegli ambiti che, fino a oggi, ne sono stati soltanto lambiti. Il prezzo dello sviluppo, qui e oggi, è la "destabilità", nel senso del cambiamento di quelle norme che impediscono la libera allocazione delle risorse e la libera scelta dei consumatori. Per salvare qualcosa, bisogna cambiare tutto.