Se le parole che usiamo condizionano i nostri comportamenti, la parola “stabilità” è diventata una sorta di medicina per l'economia in crisi, con un effetto tranquillante. Nel racconto politico economico italiano manca qualcosa, ed è la spinta al cambiamento. 

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Money talks. I soldi parlano. Parola di Lee Ross, docente di Psicologia Sociale della Università di Stanford, il quale, nel 2004, con un gruppo multidisciplinare di ricercatori ha realizzato l’esperimento “The name of the game”. Il team ha studiato il comportamento di due gruppi di studenti mentre giocavano a due diverse versioni del dilemma del prigioniero. Stesse regole e identici obiettivi, una sola differenza: il nome del gioco. Wall Street Game, in un caso, e Community Game nell’altro. Inaspettatamente, i giocatori del primo gruppo si sono dimostrati più bugiardi e spregiudicati, quelli del secondo, invece, più orientati alla collaborazione. Il motivo? Wall Street fa pensare alla vincita personale, Community a quella collettiva.

Due termini in grado, da soli, di orientare le scelte dei partecipanti e di modificarne il carattere. “Le persone – spiega a questo proposito, raggiunto da Strade, Robert Jessop, insegnante di Sociologia alla Università di Lancaster – attribuiscono in maniera selettiva sensi e significati ad alcuni aspetti della realtà piuttosto che ad altri. In questo modo riducono il ‘rumore di fondo’ e costruiscono il mondo proprio attraverso quei sensi e quei significati che gli riconoscono”. Insomma: le parole con cui descriviamo uno scenario condizionano i nostri comportamenti. Anche in economia.

Così, quando nel 2010 la politica ha cominciato a parlare di legge di stabilità – indicando l’obiettivo del provvedimento – al posto, semplicemente, di finanziaria, qualcosa è cambiato: come se la mappa dell’economia italiana fosse stata riscritta. Perché, con un semplice nome, la manovra economica ha perso il carattere di pura scelta tecnica, ed ha assunto un profilo diverso, specifico. “Definire la stabilità come l’obiettivo di una serie di manovre che imporranno altri sacrifici – spiegano Alice Felicani, Anna Loscalzo, Gloria Neri, Francesca Venezia, ricercatrici di SemioBo, progetto di comunicazione e blog collettivo nato dal laboratorio di scrittura tenuto dalla professoressa Giovanna Cosenza e da Yahis Martari presso l’Università di Bologna – significa cercare di attribuire anche ai sacrifici stessi una valorizzazione positiva, così come l’ha qualcosa che definiamo stabile. Come a dire: “vi chiediamo un ultimo sforzo, sappiamo che è stata dura ma questa volta torneremo in carreggiata. D’altra parte – continuano – qualcosa di stabile è qualcosa di fisso, certo, sicuro e proprio sicurezza, certezza e quindi tranquillità sono i sentimenti che si vorrebbero infondere. Nella partita Stabilità vs Precarietà è ovviamente la prima a vincere; è la prima che cerchiamo di raggiungere”.

“Comunicare stabilità – aggiunge, invece, il Professore di Storia e Teoria Sociologica Mario Aldo Toscano – significa sorpassare le turbolenze meramente finanziarie, sistemarle per renderle compatibili con il sistema. La ‘vecchia’ legge finanziaria si muoveva dentro il perimetro del linguaggio contabile del bilancio; oggi l’ambizione è più sofisticata. La comune radice etimologica – conclude – tra sistema e stabilità permette di intendere l’instabilità come una agenzia anti-sistema”. La stabilità, insomma, è diventata una sorta di medicina per l’economia in crisi, con un effetto tranquillante. Buona per tutti, soprattutto per la politica, che così, ha dichiarato recentemente Giuseppe De Rita: “cerca nella drammatizzazione della crisi economica e finanziaria quella legittimazione che non riesce più a trovare nel consenso popolare”.

Tutto bene allora? Il frame – la chiave interpretativa – tramite cui la politica racconta l’economia, funziona? Non esattamente. “È ambigua la propensione a credere che buona parte dei nostri guai sia dovuta alla instabilità politica e istituzionale – si legge nel rapporto Censis 2013 – e che quindi sia necessario perseguire una alta stabilità del sistema. [...] Si tratta di una stabilità vista come valore unificante – addirittura una sorta di ‘pacificazione’ – della vita collettiva, quasi una nostalgia del mare calmo”. “La coazione alla stabilità – continua il documento – non può certamente coprire lo sconforto collettivo di fronte al permanere dei pericoli di catastrofe e della sfiducia in una adeguata classe dirigente”.

Manca qualcosa, allora, nel racconto politico economico italiano. Non c’è verve, sfida, né spinta al cambiamento. Non c’è “la parola fiduciosa ma concreta – spiegano le ragazze di SemioBo – consapevole delle proprie reali possibilità di realizzazione, anche se meno d’effetto. Oggi come oggi, ripetere tecnicismi e teorie economiche per gli addetti ai lavori serve solo a sfiduciare tutti coloro che vivono gli effetti diretti della crisi economica e non hanno mai studiato la disciplina”.

Un tema di dibattito, insomma, quello della funzionalità o meno del concetto stabilità, che ha trovato terreno fertile non solo in Italia: “La stabilità – continua, infatti, il Professor Jessop – giustifica l’austerità e tutti noi ne conosciamo le conseguenze in termini sociali. Io credo esistano termini più interessanti, come flessibilità, resilienza, il concetto del sé imprenditoriale – come per esempio l’agente economico responsabile di se stesso che fa il meglio nelle condizioni peggiori. Nel Regno Unito – conclude – mentre il governo proclama il proprio impegno nel far ripartire la crescita attraverso l’austerità ci si aspetta che i cittadini siano resilienti di fronte alle sfide economiche”. Non solo stabilità, quindi, ma anche creatività. Un termine particolarmente adatto a una leadership forte che l’economia non sappia solo farla, ma pure raccontarla.

Quello che allora gli esperti propongono, in sostanza, è un restyling della comunicazione economica. Lo suggerisce per esempio il think tank inglese New Economics Foundation (NEF) nel paper Framing the economy: the austerity story (“Interpretare l’economia: la storia dell’austerità”). In sostanza, suggeriscono i ricercatori del noto pensatoio, è necessario trovare una metafora – ad esempio paragonando l’economia di una nazione a quella di una famiglia – e ripeterla più volte affinché sia chiara e comprensibile. La storia così costruita deve esprimere valori positivi, in grado di coinvolgere le persone, attente alle casse dello stato come al contenuto del proprio portafoglio.

Se, quindi, il racconto dell’austerità è penalizzante – in sostanza: è triste – serve trovarne uno alternativo capace di far ripartire l’economia nella testa dei cittadini primi ancora che nei grafici degli specialisti. Una proposta è quella di SemioBo: “Fare ai cittadini esempi concreti, far vedere realtà che tuttora funzionano e se la stanno cavando, o che addirittura sono nate proprio in questi tempi, potrebbe essere una scelta con effetti positivi, volti a far tornare la speranza nel futuro”. Un’altra quella del professor Toscano, per il quale bisognerebbe parlare di “una comunità di destino”. Un’altra ancora quella del NEF: dobbiamo tornare a parlare di progresso, immaginando l’economia come una casa da gioco in cui ognuno scommette su se stesso.

Insomma: la battaglia per la narrativa economica non si vince a suon di statistiche, ma di parole. È arrivato il tempo, per la politica italiana, di trovare quelle nuove.