Il progetto, ormai sempre più urgente, di una difesa comune dell’Ue deve andare di pari passo con una rinnovata centralità della politica: solo con riforme di ampio respiro l’Europa potrà stabilire le forme e i confini della propria sovranità.

Benotti bandiere

È il primo ottobre del 2002 quando a Blackpool Tony Blair – premier britannico da cinque anni e cinque mesi – affronta il congresso del Labour, per lui forse il più difficile. Fa un lungo giro di orizzonte sul mondo e sull’Europa vista dalla Gran Bretagna fra risultati allora raggiunti e prospettive. La Guerra Fredda è finita, dice Blair, gli Stati Uniti sono l’unica superpotenza. L’America è fiera e sicura di sé, ma allo stesso tempo è oggetto di rancore. L’Europa è una potenza economica ma non ha una coerenza politica, la Russia si sta liberando del suo passato ma ne sta ancora pagando le conseguenze.

Per Cina e India – diceva ancora l’allora premier britannico – il potere è solo questione di tempo, il Giappone sta cambiando, l’America latina sta lottando, l’Asia sta emergendo. L’Africa è impoverita, il Medio Oriente instabile. Per contribuire alla costruzione di un nuovo mondo, la Gran Bretagna deve essere parte di esso, la nostra amicizia con l’America è un punto di forza così come il nostro essere parte dell’Europa. Tony Blair in quel discorso sottolineava “l’importanza di osare”. Mentre rifletteva sul fatto che l’Euro sarebbe stato anche il destino della Gran Bretagna, si chiedeva se la politica di difesa comune europea sarebbe stata rivale o alleata della Nato.

Sono passati 15 anni, la situazione nel mondo – soprattutto nelle aree di crisi - non solo non è mutata ma si è anche aggravata, l’Europa ha conosciuto un forte periodo di crisi economica ed istituzionale e sta conoscendo il fenomeno delle migrazioni di massa. Il Regno Unito, negli ultimi tempi ferito dal terrorismo con gli attacchi di Manchester e Londra, non solo non è entrato nell’Euro ma sta avviando le procedure per uscire dall’Unione Europea: la premier Theresa May ha voluto elezioni anticipate per raggiungere questo obiettivo con un forte mandato politico, ottenendo però di fatto dagli elettori l’instabilità politica, dovuta a un’avanzata imprevista del Partito Laburista, con cui si sono schierati i giovani. Il neoeletto Presidente degli Stati Uniti Donald Trump precisa che di fatto non esisterà più la NATO come l’abbiamo conosciuta: l’Europa è di fronte a un momento storico, deve “crescere”, deve imparare a farcela da sola, deve trovare un suo equilibrio comune, deve dunque di nuovo “osare”.

Il nuovo progetto per l’Unione Europea deve dunque certamente tenere nella giusta considerazione i temi economici e dell’occupazione, così come quello dello sviluppo, soprattutto se legato alla ricerca industriale, ma deve passare assolutamente dalla trasformazione del dibattito impaurito sulla politica di difesa comune in un vero e proprio progetto da attuarsi velocemente, con finanziamenti e regole precise. È questo uno dei punti che richiedono una forte volontà politica, un punto che racchiude in sé, nello stesso momento, una presa d’atto che l’ombrello di protezione americano potrebbe non essere più a disposizione, una prospettiva importante di sviluppo dell’industria dell’UE e una risposta ai timori dei suoi cittadini, alle prese con crescenti problemi legati alla sicurezza per i conflitti che vanno emergendo nelle aree limitrofe: Europa dell’Est, Medio Oriente e Nord Africa, problemi che hanno sviluppato e rischiano di sviluppare ulteriormente movimenti populisti e nazionalisti.

Un saggio di Lorenzo Pecchi, Gustavo Piga e Andrea Truppo uscito all’inizio di quest’anno evidenzia chiaramente come la costruzione di una seria ed efficiente politica di sicurezza comune possa rilanciare l’idea di un’Europa coesa, allo scopo di fronteggiare le sfide globali. La mobilitazione delle istituzioni nella costruzione di forze armate comuni consentirebbe l’uscita da un parco europeo fatto da 154 sistemi d’arma differenti, con evidenti ricadute non solo nella domanda ma anche nell’offerta industriale, che può a sua volta portare l’Europa ad una sana competizione sui mercati internazionali.

La frammentazione degli strumenti militari si ripercuote a sua volta sulla spesa in ricerca e sviluppo, anch’essa gestita prevalentemente a livello nazionale, con inutili duplicazioni e dispersioni di risorse. Il settore industriale europeo della difesa è oggi infatti caratterizzato da una persistente frammentazione: quando quasi il 90% delle acquisizioni di equipaggiamenti e strumentazioni ad alta tecnologia viene gestito a livello dei singoli Stati nazionali non si consente la crescita di una struttura produttiva continentale dove tutte le Aziende nazionali possano partecipare attivamente, non sfruttando quindi appieno i vantaggi di sinergie produttive ed economie di scala e generando sprechi per il contribuente europeo e mancanza di massa critica per produrre un livello di innovazione significativo, fuori dalla eterogeneità e sovrapposizioni protezionistiche che fin qui non hanno consentito questa operazione. Operazione che sarebbe, fra le altre cose, uno strumento formidabile di politica estera e di sviluppo dell’Europa verso le aree in cui si generano i conflitti e che danno luogo ai fenomeni di migrazione di massa.

Siamo in una situazione in cui da più parti ci si chiede chi governi il mondo in questo momento, ma un fatto direttamente correlato al terrorismo e alle migrazioni è che nel mondo sono sempre più estese le regioni nelle quali non esiste più alcuna traccia della forza dello Stato, prova ne è, ad esempio, la situazione di Siria, Afghanistan ed Iraq. Siamo anche in una situazione – per mutuare Heinrich Geiselberger – di grande regressione: per risolverla, o anche solo per fronteggiarla, la politica dovrebbe costruire vere istituzioni transnazionali, grazie alle quali cercare soluzioni globali per problemi globali. Allo stesso tempo servirebbe lo sviluppo di una mentalità corrispondente al momento: il “sentimento del noi-cosmopolita” proposto da Ulrich Beck.

L’Italia ha una grande opportunità e non deve rimanere, a questo punto, ad attendere la scelta altrui: la costruzione di questo fondamentale pilastro dell’Unione Europea richiede uno slancio politico importante. Il punto centrale per affrontare questo tema è il seguente: quali sono, se esistono, gli strumenti per elevare la politica e renderla scevra dalla subalternità culturale in cui è stata relegata? È evidente, infatti, che da un punto di vista delle idee la politica è scivolata sempre più ai margini del dibattito pubblico, venendo investita, di volta in volta, di sempre minore considerazione, per non dire di discredito. È lecito chiedersi dunque se si tratti di una deriva irreversibile o se ancora sia possibile fare qualcosa. La lezione di questa epoca, comunque, è che il presunto complesso di inferiorità della politica nei confronti di altri campi del sapere, tra cui l’economia, la tecnica, e molti altri, è del tutto ingiustificato.

Per quasi un paio di decenni ci è stato spiegato che l’economia, meglio ancora se finanziaria, non aveva bisogno della politica, la quale al massimo poteva limitarsi a compiacere e assecondare le volontà dei mercati, che a loro volta si sarebbero certamente autoregolamentati. Crediamo di poter affermare, senza timore di essere smentiti, che i risultati di questo approccio sono ben visibili: la crisi economica ha messo a nudo i limiti di economia e finanza al momento di riconoscerne i risultati, di autoregolamentarsi – cosa di per se già molto difficile -, di trovare una soluzione alle devastanti crisi sociali che hanno causato.

A questo deve aggiungersi una carenza di visione, impegnata la politica com’era non a lavorare su scelte con prospettive almeno ventennali o più, ma a risolvere problemi momentanei, nel cd. “day by day”, molte volte ostaggio di paure legate a sondaggi poi rivelatisi quanto meno non veritieri. La grande regressione che oggi si dispiega sotto i nostri occhi sembra dunque essere il risultato di una interazione fra i rischi della globalizzazione e quelli del neoliberismo. I problemi generati dall’incapacità della politica di far fronte alle interdipendenze globali trovano infatti delle società impreparate ad affrontarli sul piano istituzionale come su quello culturale.

La politica deve dunque riscoprire il senso del proprio ruolo e riappropriarsene, e noi dobbiamo riscoprire il senso della politica e avere il coraggio di liberarne le potenzialità proprio per riaffermare il ruolo del nostro Paese in Europa. Un recente saggio del politologo britannico Matthew Flinders pone l’accento sul concetto che la “difesa della politica” va intesa come difesa della “politica democratica”, in un’analisi realistica in cui le sue manchevolezze sono associate al tema delle aspettative. La difesa della democrazia – e quindi di una politica “alta” - vuol dire difesa dal mercato imperante e sregolato ma anche difesa dalla depoliticizzazione, dalle crisi, dal trattamento che i media le riservano.

L’errore è stato lasciare che la politica perdesse centralità nel discorso pubblico, impedendole di indicare soluzioni, con il pessimo risultato che essa non è stata più in grado di tutelare le persone nei propri bisogni quotidiani, e ha finito col perdere la capacità di alzare lo sguardo e individuare strade per le prossime generazioni, cavalcando a volte paure – come quella delle migrazioni di massa o delle crisi provocate dall’incapacità di creare lavoro - scaricate il più delle volte sull’Unione Europea e sui suoi regolamenti.

È possibile cambiare questo registro? A nostro modo di vedere è urgente e necessario. Il populismo e i suoi leader – scrive l’antropologo statunitense di origine indiana Arjun Appadurai – sanno di aspirare a leadership nazionali in un’epoca in cui la sovranità nazionale è in crisi. Il sintomo più evidente di questa crisi è il fatto che nessuno Stato–Nazione moderno controlla quella che potremmo chiamare la sua economia nazionale e questo problema riguarda tanto i più ricchi quanto i più poveri di ogni nazione. L’economia degli Stati Uniti è di fatto in mani cinesi, mentre quella cinese dipende essenzialmente dalle materie prime dell’Africa, dell’America Latina e di altre regioni dell’Asia. Ognuno dipende in qualche misura dal petrolio mediorientale e idealmente tutti gli Stati Nazione moderni dipendono dagli armamenti sofisticati di un numero esiguo di Paesi ricchi.

La politica, allora, non solo deve tornare a occupare il centro della vita pubblica, conquistando quello spazio che le è stato sottratto, ma deve anche, e questo è senza dubbio l’aspetto più gravoso, tornare a svolgere il proprio ruolo fondamentale, vale a dire disegnare il futuro della società. La crisi della governance europea e lo stesso calo di fiducia nelle istituzioni dell’Unione da parte dei cittadini – ma anche, nello stesso tempo, la risposta entusiasta che gli elettori hanno dato alla proposta politica di stampo assolutamente e dichiaratamente europeista che ha portato all’elezione del Presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron - segnala che senza la politica non esiste la stessa Europa, la tecnocrazia imperante impedisce di ragionare sulla possibilità di usare gli strumenti già esistenti e previsti dai Trattati – frutto appunto di mediazione politica – per avviare le riforme necessarie in senso federale con ricadute importanti sugli Stati membri.

L’Italia, raccogliendo anche il recente invito del Presidente della Commissione Europea Jean Claude Juncker, deve allora trovare la forza politica di affrontare questo tema, essere promotrice di una vera politica di sicurezza comune dell’Unione Europea, che non è solo mercato delle armi - come si potrebbe facilmente obiettare - ma potenziamento della ricerca industriale cosiddetta “dual-use, aumento dei posti di lavoro, contributo alla soluzione delle crisi umanitarie che inevitabilmente hanno sull’Europa e sull’Italia la loro prima ripercussione, risposta al sentimento di insicurezza dei cittadini che vedono nell’immigrazione - ad esempio - un pericolo per l’intero ordine pubblico.