Mentre la rivoluzione digitale cambia i processi occupazionali, l’organizzazione dei sistemi produttivi e la distribuzione del reddito e si propone come la vera sfida del futuro, una politica anacronistica (ma purtroppo 'vincente') consola l’elettorato impaurito con la vecchia ricetta protezionista. Una fuga dalle responsabilità del governo e dalla realtà dell’economia globale.

DellaVedova gennaio deadend

Il vento della propaganda protezionista torna a soffiare forte e gonfia le vele dei profeti del mondo chiuso. Non è una novità di questo secolo. Nell'Italia dei nostri nonni, l'autarchia divenne un programma politico, insieme all'oro alla Patria e alla denuncia del complotto demo-pluto-giudaico-massonico.

Il protezionismo e il nazionalismo sono gemelli siamesi e non possono essere separati. L’ostilità economica e quella politica, alimentate da un ideale autoreferenziale di sovranità, si potenziano reciprocamente.

La retorica nazionalista e antiglobalizzazione porta inoltre con sé la messa in discussione della rilevanza dei fori multilaterali e del diritto internazionale, cioè il principio stesso che debba esistere un level playing field tra paesi, che eviti il ritorno alla legge del più forte e che dia ai cittadini di tutto il mondo almeno la speranza che ci sia chi si pone il problema di riconoscere diritti basilari comuni. Facile prevedere, ad esempio, che alla retorica antiglobalizzazione si affiancherà una propaganda meno esplicita, ma altrettanto efficace, contro l'ONU, se non come mera stanza di compensazione tra super potenze. Anche qui, si indicheranno fallimenti congiunturali e inadeguatezze strutturali per chiedere di demolire e non di migliorare.

Intendiamoci: tutti i fenomeni di integrazione economica sono rivoluzionari e “disordinanti” e il processo di globalizzazione non fa certo eccezione. Non sono un pranzo di gala, danno e tolgono occasioni, lavoro e profitti in modo disuguale e imprevedibile e cambiano in modo pesante le gerarchie dei rapporti di forza e di dipendenza tra stati e continenti.

La globalizzazione dell'ultimo quarto di secolo, trainata dal protagonismo cinese avviato da Deng Xiaoping, ha avuto un’eccezionale incidenza sull’ordine politico-economico e sul sistema delle relazioni internazionali. D’altra parte, non è agevole fare un “bilancio generale” della globalizzazione, per concludere – come pure è evidente – che essa ha consentito a miliardi di persone di agganciare il treno dello sviluppo, di uscire dalla fame e dall’economia di sussistenza e di migliorare in maniera straordinaria (anche se ancora relativa) i tassi di alfabetizzazione, la speranza e la qualità della vita, la cultura civile e politica.

La globalizzazione è stata un fenomeno di promozione umana e non solo economica senza precedenti. Gli elettorati guardano però alla globalizzazione da prospettive nazionali e i bilanci della globalizzazione sono quindi (anche) nazionali. È perciò inevitabile discuterne – e misurarsi politicamente con essa – guardando ai benefici di chi ne ha beneficiato, ma anche ai costi lamentati da chi ritiene (a torto o a ragione) di avere pagato per i benefici altrui, ad esempio quelli legati alla crescita delle importazioni di beni sostitutivi di produzioni nazionali. La globalizzazione non è la stessa vista da Prato o da Shanghai.

È dunque comprensibile chiedersi, dal punto di vista "occidentale", se l'apertura avrebbe potuto essere più graduale - più facile a dirsi che a farsi - e se i benefici avuti come consumatori e come esportatori siano stati superati o no dai “malefici” legati all’ingresso massiccio sul mercato di molti prodotti stranieri o alla delocalizzazione di alcune produzioni nazionali. È naturale anche chiedersi (e apertamente discutere) quali correttivi possano ancora essere immaginati per mitigare le conseguenze più pesanti ed economicamente discutibili, ad esempio per acquisizioni o successi di mercato finanziati con aiuti di Stato o realizzati facendo dumping.

Ma se questa è una discussione inevitabile, è a maggior ragione necessario che sia una discussione onesta, che faccia i conti con gli effetti reali della globalizzazione e non solo con quelli percepiti (e suggeriti da una propaganda ostile e sinistramente autarchica), e con le conseguenze disastrose che deriverebbero dall'abbandono da parte delle economie sviluppate, tra cui quella italiana, del mare aperto dei mercati globali. L’economia chiusa non è un porto sicuro.

La roboante retorica del neopresidente americano appare fino a oggi anacronisticamente ancorata ai soli destini dell'industria manifatturiera, che ormai vale nei paesi più ricchi circa il 15% in termini di prodotto e occupazione e in cui la rivoluzione digitale dei processi produttivi e l'aumento della produttività comporteranno comunque una riduzione della “vecchia” manodopera impiegata. Non sappiamo quale e quanta sarà di qui a pochi anni l’occupazione nell’industria 4.0, ma sappiamo già che nelle nuove “fabbriche intelligenti” saranno sempre meno i blue e white collar tradizionali. E questo vale per gli Stati Uniti come per l’Italia e per l’Europa. Ben pochi di quegli elettori che nel Midwest hanno abbandonato la Clinton e consegnato la Casa Bianca a Trump troverebbero ad attenderli gli “stessi” posti di lavoro nelle fabbriche americane, anche se il nuovo presidente costringesse con dazi miliardari le grandi corporation a un reshoring coatto anziché attendere o incentivare quello fisiologico, legato alla convergenza nei costi e alla ricerca della qualità.

Per altro verso, le nuove tecnologie e il cloud stanno trasferendo ricchezza e anche occupazione proprio verso gli USA, disintermediando e centralizzando funzioni e servizi un tempo parcellizzati in una miriade di operatori di prossimità a contatto diretto con i consumatori (pensiamo a Airbnb, iTunes, Uber, Amazon, Google per la pubblicità… ). Trump pensa che senza le regole e la cultura del libero scambio e una condizione di tendenziale reciprocità le aziende della Silicon Valley potranno continuare a ingrossare i profitti e creare valore per i loro azionisti senza far scattare in tutti gli altri Paesi ritorsioni per le eventuali politiche protezioniste della nuova Amministrazione USA?

Dal punto di vista politico, ciò che più rileva oggi è capire se la potente retorica protezionista, punta di lancia del fronte etno-nazionalista nel nuovo bipolarismo aperto-chiuso, vada assecondata o contrastata.

Trump pare essere riuscito a convincere una buona fetta di elettorato statunitense che la globalizzazione commerciale sia stata un fenomeno subìto dagli USA a tutto vantaggio della Cina o del Messico. È storicamente falso. La globalizzazione è una “scommessa americana”, che gli Usa possono dire finora di avere vinto su tutta la linea. Dall'altra parte, Xi Jinping si presenta al mondo come l'alfiere del libero scambio, pur guidando un Paese sempre più assertivo nella difesa della sua economia anche nel dumping e negli aiuti di Stato. Questo scontro di propagande farà più danni a noi che a loro. Ma noi abbiamo il dovere di preservare e difendere due punti di chiarezza, che nella discussione politico-elettorale si riveleranno decisivi in termini di consenso. Se gli elettori italiani ed europei non se ne persuaderanno, la trappola protezionista sarà destinata implacabilmente a scattare, con tutte le conseguenze del caso.

Punto primo. Il valore politico-elettorale di ogni singolo posto salvato da politiche protezioniste potrebbe essere elevato e, nel breve termine, avvantaggiare gli alfieri della chiusura. Il costo di quel singolo posto rischia di rivelarsi altissimo per i consumatori che si trovassero ad acquistare in regime di minore concorrenza, ma la ricaduta negativa, anche in termini elettorali, arriverebbe a danno fatto. Soprattutto il contraccolpo subito dal sistema economico per ritorsioni “contro-protezioniste” potrebbe rivelarsi esiziale. L'Italia è un buon esempio di questo rischio.

La popolarità delle ricette protezioniste è crescente, proprio mentre lo sforzo di lanciare il Made in Italy in modo strutturato nei molti settori in cui abbiamo imprese d'eccellenza (anche fuori dal food-fashion-furniture), comincia a dare risultati incoraggianti, in termini di fatturati e di occupazione.

Pensiamo di poter continuare a vendere nel mondo i prodotti italiani o di internazionalizzare il nostro sistema produttivo considerando un traditore della Patria chi “compra straniero”? Pensiamo di poter vendere in Paesi dai quali vorremmo di fatto proibire ai consumatori e alle imprese italiane di comprare? Inoltre, chiudere i mercati penalizzerebbe le imprese più competitive, quelle che esportano, e ridurrebbe la produttività del nostro sistema economico.

Punto secondo. Un’eventuale ubriacatura protezionista - al netto di altri probabili guai internazionali - finirebbe per distrarre la politica dalla straordinaria trasformazione tecnologica che sta rivoluzionando funzioni professionali e processi occupazionali e stravolgendo i paradigmi della distribuzione del reddito. Guardando avanti di un paio di lustri, questo fenomeno potrebbe probabilmente avere un impatto più radicale di quello legato alla globalizzazione e su questo andrebbero indirizzati gli sforzi di analisi e di progettualità politica: parafrasando Schumpeter, in questa fase storica l’asincronia tra distruzione e creazione potrebbe avere impatti pesanti, di cui occorrerebbe occuparsi da subito.

L'agenda confusa ma seducente del protezionista Trump, almeno fino a oggi, appare dunque pericolosa e concettualmente vecchia di vent'anni e rischia di allontanare la consapevolezza delle sfide più attuali e di rivelarsi, soprattutto, una fallimentare strategia di distrazione di massa.

@bendellavedova