Grandi imperi sono crollati a causa del protezionismo e dei monopoli, altri imperi sono fioriti grazie al commercio e alla libera circolazione di merci e persone. Nel pensiero economico di Hume, Smith e Ricardo si trovano principi di buon senso validi ancor oggi, che tagliano le gambe a ogni tentazione isolatrice.

Denicola gennaio granaglie

Quando pensiamo ai grandi imperi, in genere la nostra mente va a quello romano, l’impero per eccellenza, a quello cinese e a quello britannico. Ci dimentichiamo spesso di un impero che per un certo periodo di tempo ha dominato il mondo e sul quale, come giustamente si vantava Carlo V, non calava mai il sole.

Parliamo, com’è ovvio, dell’Impero Spagnolo, che nel XVI secolo si estendeva dall’America del sud a quella centrale e settentrionale, toccava l’Africa, governava parti d’Italia, le Fiandre e continuava per vari possedimenti asiatici fino alle Filippine. Prima dei Borboni, l’Impero Asburgico comprendeva anche l’Austria-Ungheria; tra la fine del XVI secolo e il 1640, con la riunificazione delle corone portoghesi e spagnole, l’impero acquisiva il Brasile, i porti indiani, l’Africa sub-equatoriale portoghese.

Nessuno Stato aveva fino ad allora accumulato tali quantità di oro ed argento e controllato territori così vasti; il Nuovo Mondo aveva inoltre fatto entrare in Europa prodotti sconosciuti come il mais, il cacao, i peperoni, le zucche, le patate, i fagioli e i pomodori. Eppure l’impero non resse: cominciò un inesorabile declino fino alla sua disgregazione e, peggio ancora, la Spagna rimase in uno stato di arretratezza economica dalla quale ha cominciato a risollevarsi solo pochi decenni or sono.

Le cause della decadenza furono la particolare natura chiusa ed autoritaria delle istituzioni spagnole (“estrattiva”, come l’hanno ribattezzata i due studiosi Acemoglu e Robinson) e le barriere al commercio imposte dalla Corona che diede in monopolio le tratte transoceaniche a una corporazione di mercanti di Siviglia. Costoro fecero in modo che la monarchia ricevesse oro, argento e tributi in abbondanza (e li tesaurizzasse o impiegasse in guerra) ma impedirono qualsiasi forma di libero scambio. Anzi, la Spagna impose ostacoli anche tra colonia e colonia: il Messico non poteva commerciare con la Colombia, ad esempio.

Queste politiche restrittive impedirono il sorgere di una classe borghese, crearono risentimento in America Latina e portarono all’indebolimento e alla dissoluzione dell’Impero spagnolo, che si confrontava peraltro con l’ascesa dell’altra grande potenza coloniale che invece del commercio aveva fatto il suo tratto distintivo, l’Impero Britannico.

Tutto questo era ben chiaro a David Hume, che nei suoi saggi “Of Commerce” (1752), “Of the Balance of Trade” (1752) e in modo chiarissimo nel breve “Of the Jealousy of Trade” (1758) demolisce le credenze protezionistiche e mercantilistiche.

Il grande filosofo empirista scozzese scrive infatti che contro la “gretta e tossica” opinione che fa guardare con sospetto allo sviluppo e al benessere degli Stati confinanti, perché sarebbe impossibile per uno Stato essere prosperoso senza danneggiare qualcun altro (la famosa teoria del commercio internazionale a somma zero che sopravvive ancor oggi) egli ritiene chel’incremento delle ricchezze e del commercio di una qualunque nazione, piuttosto che causare un danno, di solito favorisce i paesi limitrofi nell’acquisto di ricchezze e di commerci.

L’esperienza dimostra che “dove viene garantita la libertà di scambio tra le nazioni, è impossibile che l’economia interna di ciascun paese non riceva uno stimolo positivo dai progressi degli altri”. Prendendo l’esempio dello sviluppo della Gran Bretagna nei due secoli precedenti, Hume nota che “all’inizio la merce è importata dall’estero con nostro grande disappunto, perché pensiamo che essa ci privi della nostra moneta; in un secondo tempo le competenze stesse vengono gradualmente importate, a nostro evidente vantaggio”. Ci scordiamo che se nel passato gli stranieri “non ci avessero istruito, noi ora saremmo dei barbari”.

In poche parole viene spazzata via l’erronea convinzione che il commercio serva a tesaurizzare e si spiega la teoria della concorrenza come diffusione della conoscenza che sarà alla base del pensiero di Hayek (scrive lo scozzese parlando degli effetti di stimolo della competizione sull’economia inglese: “L’attività economica delle nazioni da cui importano viene incoraggiata e anche la loro viene stimolata, grazie alla vendita delle merci che offrono in cambio”).

Non solo. Hume coglie anche quella che verrà battezzata teoria dei vantaggi comparativi, discendenza diretta della divisione del lavoro. “Lo Stato non deve temere che i suoi vicini possano progredire in tutte le arti e manifatture… La natura, offrendo una diversità di competenze di clima e di suolo alle varie nazioni, ha assicurato la sussistenza di relazioni e commerci reciproci, finché questi sono pacifici e assidui”.

E in questo passo, che vale la pena riportare per intero, si spiega benissimo perché il concentrarsi su ciò che si sa fare meglio comunque porterà dei vantaggi: “Sono pochi gli inglesi che non pensano che la loro nazione sarebbe completamente rovinata se i vini francesi fossero venduti in Inghilterra talmente a buon mercato da soppiantare tutta la birra e i liquori distillati sull’isola: ma...niente sarebbe più innocuo, e probabilmente più vantaggioso. Ciascun nuovo acro di vigneto piantato in Francia allo scopo di fornire vino in Inghilterra renderebbe necessario ai francesi l’acquisto del prodotto di un campo inglese coltivato ad avena e grano per il proprio sostentamento: ed è evidente che saremmo noi ad avere la risorsa di maggior valore”.

Infine, con un bel richiamo metafisico per uno scettico come lui, Hume ammonisce che dazi e ostacoli al commercio "privano le nazioni confinanti di quella libera comunicazione e di quello scambio che l’Autore del mondo ha voluto, concedendo ad esse terreni, clima e attitudini tanto differenti gli uni dagli altri".

A seguito di intuizioni così penetranti, l’opera di Adam Smith fece per la teoria economica quello che Augusto si vantò di aver fatto per Roma: la trovò di mattoni e la lasciò di marmo. Il padre dell’economia politica, che nella sua “Ricchezza delle Nazioni” aveva illustrato con il famoso esempio della fabbrica di spilli i vantaggi della divisione del lavoro, ha gioco facile nel dimostrare come il concetto si applichi al commercio internazionale. “Per mezzo di vetrate, concimazioni e serre riscaldate si possono coltivare in Scozia ottime uve, e con esse si può fare anche dell’ottimo vino, con una spesa quasi trenta volte più alta di quella con cui si può far arrivare da paesi stranieri un vino per lo meno altrettanto buono. Sarebbe dunque ragionevole quella legge che proibisce l’importazione di tutti i vini stranieri soltanto per incoraggiare la produzione del Claretto o del Borgogna in Scozia?”.

Giammai: difatti “è una regola di condotta di ogni prudente capofamiglia quella di non cercare mai di fabbricare a casa ciò che costerebbe più fare da soli che comprare. Ciò che è prudenza nella condotta di una famiglia privata non può essere di certo follia nella conduzione di un grande regno”.

Né, secondo Smith, è necessario preoccuparsi di una bilancia commerciale passiva. Se una nazione produce più di quanto consuma, vuol dire che accresce il proprio capitale, e se le importazioni superano le esportazioni ciò non incide sulla sua capacità di arricchirsi. Basandosi su tale assunto, Smith criticò la politica coloniale britannica verso l’America che la Corona aveva tentato di far diventare un “popolo di consumatori” per le merci britanniche.

È così che si arriva al terzo grande autore del pensiero economico classico, David Ricardo, il quale nei suoi “Principles of Political Economy and Taxation” paga il suo tributo a Smith in più occasioni e scrive pagine illuminanti sul commercio internazionale sviluppando la menzionata legge del vantaggio comparativo. La base del ragionamento è sempre la stessa di Hume e Smith: meglio comprare a più basso prezzo un prodotto all’estero che farselo a casa.

D’altronde, anche se un paese è più efficiente di un altro in diciamo due produzioni, comunque gli conviene specializzarsi in una. Poniamo che il Portogallo possa produrre una bottiglia di vino con 5 ore di lavoro e un chilo di pane con 10 ore. L’Inghilterra, invece, produce la stessa bottiglia in 3 ore e il chilo di pane in un’ora. Sembrerebbe che all’Inghilterra convenga produrre tutto a casa. Invece, il costo del Portogallo per produrre il vino, sebbene più alto che in Albione, è più basso rispetto al pane. Per ogni bottiglia prodotta, il Portogallo dà via mezzo chilo di pane, mentre all’Inghilterra basta 1/3 di chilo. Quindi il Portogallo ha un vantaggio comparativo nel produrre il vino, mentre l’Inghilterra lo ha nel produrre il pane. Se Londra e Lisbona scambiano vino e pane 1 a 1, il Portogallo convertirà le 10 ore che gli ci vogliono per produrre il pane per fare 2 bottiglie di vino. Anche l’Inghilterra ci guadagna, perché per importare due bottiglie di vino dal Portogallo in cambio di due chili di pane, ci dovrà mettere due ore di lavoro, mentre per fare una bottiglia di vino c'è ne impiega tre e quindi, con lo scambio immaginato, convertirà le 3 ore per sfornare 3 chili di pane e alla fine si troverà con una bottiglia in più (ne importa due) e un chilo di pane in più (gliene avanza uno). Ecco qui la teoria dei vantaggi comparativi spiegata senza le complesse formule matematiche utilizzate dagli odierni economisti.

Hume, Smith, Ricardo. Grazie a loro la battaglia intellettuale per il libero scambio era vinta definitivamente e gli studi successivi potevano solo saggiare qui e lì la bontà in situazioni particolari e diverse tra loro dell’imposizione temporanea in certe fasi dello sviluppo di un paese di protezioni provvisorie. Eccezioni a una regola teorica ferrea che non si è riusciti a piegare. Purtroppo, nel corso della storia successiva lo ha spesso fatto qualche uomo politico, “quell’astuto ed insidioso animale” scriveva Smith “i cui consigli sono guidati dai mutamenti transitori delle circostanze”.

Sta a noi far sì che, nell’odierna congiuntura, l’eredità preziosa dei classici non sia vanificata da populisti dalle improbabili capigliature o trasandati abbigliamenti ed inesistenti competenze.

@aledenicola