Perché l’Italia esca dalla crisi e il Mezzogiorno riesca finalmente a salire sul treno europeo, non servono finanziamenti a pioggia, ma va impostata una strategia per lo sviluppo della ricerca applicata al servizio della riconversione tecnologica del settore industriale; un progetto di collaborazione tra i centri di eccellenza universitari e le imprese, sotto un'intelligente regia politica.

Benotti grafico

La decisione del Governo italiano di ricominciare a puntare con un grosso investimento sulle dinamiche dello sviluppo industriale denominato “4.0” ed il ripensamento proposto dall’Italia all’Unione Europea delle politiche di austerità - che nulla hanno portato in termini di crescita, sviluppo, occupazione e coesione sociale - consentono di tornare a riflettere sul ruolo dello Stato innovatore, delle politiche per la ricerca industriale, della conseguente creazione di nuovi posti di lavoro, e di affrontare sotto un nuovo punto di vista anche il problema del Mezzogiorno d’Italia.

Questo cambio di paradigma integra, per il nostro Paese, le basi di un importante momento di ricostruzione; tuttavia, per poter ricostruire anche in termini di prospettive europee, da cui non possiamo prescindere, bisogna chiedersi che cosa sia andato storto nel mondo occidentale contemporaneo. La risposta non va necessariamente ricercata in profili di tipo economico, ma in una riflessione sulla questione – anche solo in un approccio di natura etica e laica – dei valori.
Negli ultimi decenni è stata utilizzata in tutti i modi la parola crescita – senza chiedersi, in fondo, per chi fosse poi quella crescita economica che andavamo rincorrendo e che c’è stata solo forse per pochi soggetti, per poi crollare del tutto e, di fatto, in alcuni casi scomparire.

In questa situazione l’Europa è finita – per usare una definizione cara a Jurgen Habermas – in una vera e propria spirale tecnocratica, trascinando ovviamente con sé anche l’Italia; per sopperire allora ai problemi legati alla mancata crescita - e quindi alla crisi economica - sono state inaugurate le citate politiche di austerità, di nuovo senza chiedersi quali effetti esse avrebbero avuto sul destinatario finale dell’azione politica, l’Uomo. Era già difficile allora, infatti, poter sostenere che avremmo tratto beneficio nel lungo periodo dall’aumento di una generale situazione di difficoltà ed impoverimento e il caso italiano è emblematico: in un Paese dove certamente vi erano problemi congeniti ed un debito pubblico molto alto ci troviamo adesso alle prese con i cittadini che non capiscono più quale sia il limite fra l’utile e l’inutile, vedendo progressivamente diminuire i servizi mentre rimane sostanzialmente inalterata la pressione fiscale.

Tutto questo, non solo in Italia, ha fatto emergere in maniera evidente che ciò che manca all’Europa è certamente una “political leadership: a ben guardare, questo momento di crisi può essere però l’occasione - per l’Europa certamente ma per l’Italia particolarmente - per valorizzare le proprie specificità, investendo in vari settori dell’economia reale (infrastrutture, cultura, ricerca e sviluppo, istruzione e formazione).

Per uscire dalla crisi è assolutamente necessario elaborare, a fianco dell’investimento di capitali privati, un nuovo modello e una nuova visione del settore pubblico, mettendo in cantiere investimenti intelligenti anche se decentralizzati e guidati dalla mano pubblica, in modo che con le sue risorse lo Stato possa sostenere l’innovazione essendo soprattutto attivo dall’interno. Se si analizza poi la situazione dei Paesi più colpiti dalla crisi economica in Europa – Portogallo, Italia, Grecia e Spagna, i cosiddetti PIGS – si vedrà che sono quelli che, oltre al resto, hanno meno investito le loro risorse pubbliche in Ricerca e Sviluppo. Sono investimenti costosi, certo, ma producono crescita economica duratura e posti di lavoro reali.

Da dieci anni, e ininterrottamente, l’Italia spende sempre meno in ricerca e sviluppo e questo sia per parte pubblica che con il portafoglio dei privati. Tra i Paesi dell’Unione Europea e del G20 siamo in coda ad ogni classifica con appena l’1,25% del Pil, un terzo di Israele (4%), della Finlandia (3,80%), meno della metà della Germania (2.89%), sotto il Portogallo (1.52%) e la Spagna (1.36%). Ma la cosa ancora più grave è che la ricerca che riusciamo a finanziare è quella degli altri, e a piene mani. Dal 2007, infatti, l’Italia ha regalato agli altri Paesi europei una media di 350 milioni di Euro l’anno, fondi europei destinati specificamente alla ricerca che noi non riusciamo a spendere. Dei 41.5 miliardi di Euro che l’Europa ha messo sul piatto, dal 2007 ad oggi, siamo stati in grado di portare a casa solo 3,457 miliardi, pari all’8% del totale, perdendo così l’obiettivo di aumentare i posti di lavoro attraendo ricercatori di qualità nelle università e nelle imprese innovative per rafforzare il sistema industriale.

È dunque evidente come la ricerca scientifica applicata all’industria sia la molla principale per lo sviluppo economico di un Paese moderno. Lo è per i Paesi industrializzati, lo è - a maggior ragione - per quelle zone del mondo in via di sviluppo o per le zone depresse di Paesi sviluppati come, ad esempio, il Mezzogiorno d’Italia. Il nostro Paese vive da alcuni decenni la contraddizione tra la spinta ad una visione sempre più europea da una parte e la necessità di colmare i suoi gap interni dall’altra. Questa differenza di sviluppo industriale ed economico riguarda certamente tutto il Mezzogiorno d’Europa, ma per l’Italia, dopo oltre 150 anni di unità nazionale, è il momento di affrontare e avviare a soluzione, approfittando del momento, la cosiddetta “Questione meridionale” mai risolta. Sotto il profilo squisitamente economico, lo sviluppo delle nostre regioni meridionali, a nostro parere, passa inevitabilmente da importanti investimenti nel settore della ricerca industriale.

Ci sono certo altri necessari prerequisiti di modernità, in materia di ordine pubblico e funzionamento dell’amministrazione locale, ma è fuor di dubbio che, per riportare il meridione verso percentuali di sviluppo europee, servano investimenti sul fronte più avanzato. Cioè sulla ricerca scientifica applicata all’industria.

La colpa del ritardo italiano è da ricercare nella nostra mentalità, spesso più attenta alla speculazione immediata piuttosto che ai benefici futuri. Però, poiché la storia non è necessariamente destino, il piano da pensare per il Mezzogiorno d’Italia, inserito in una reale prospettiva europea e con un beneficio atteso per lo sviluppo di tutte le Regioni del Paese, Nord compreso, non può non tenere conto dell’investimento nel settore della ricerca scientifica e tecnologica applicata.

Un simile approccio avrebbe come conseguenze benefiche l’incremento di posti di lavoro sia nelle aziende interessate dagli investimenti che nell’indotto e nello sviluppo di materiali e tecnologie strategici per il Paese che siano di interesse per la grande e la piccola-media impresa. A questa azione diretta va accompagnata un’idea capace di contemperare la cultura industriale, a volte troppo orientata verso l’immediato ottenimento del prodotto spendibile, con la mentalità dello scienziato. E qui la politica può e deve giocare un ruolo fondamentale.

Spetta alla politica creare la cornice necessaria a permettere lo sviluppo attraverso la ricerca. Non si tratta e non deve trattarsi, per una volta, di un banale finanziamento pubblico. Piuttosto, di creare le condizioni che permettano il radicamento di una ricerca scientifica finalizzata alla produzione industriale e allo sviluppo economico, in tutto il Paese, tenendo presente che un conto è creare in giro per l’Italia isole felici, distaccate dalle altre realtà al Nord come al Sud, un altro è realizzare una “massa critica d’intervento”, con un investimento composto nello stesso momento da risorse umane e finanziarie.

Fin dal 1989 si era cercato, con la nascita ed il rafforzamento di competenze in Italia del Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica, poi abolito e riaccorpato al Ministero della Pubblica Istruzione per motivi economici (!) ma senza alcuna strategia di lungo periodo, di portare al centro dell’azione politica la questione del cosiddetto “capitale immateriale” - argomento oggi di gran moda, ma purtroppo, finora, solo nei dibattiti - delle competenze e delle conoscenze, centrale rispetto ai processi di sviluppo.

L’investimento in ricerca industriale potrà così dimostrarsi un punto fondamentale per una rinnovata politica industriale del Paese: abbiamo le risorse e le intelligenze per ripartire, abbiamo un sistema di imprese che può recepire il frutto di una necessaria saldatura fra programmazione e sviluppo scientifico. A condizione che la politica faccia il suo mestiere e capisca l’importanza di allocare le risorse economiche, da destinare ad investimenti in ricerca scientifica applicata, accorpando i numerosi attuali centri di costo sparsi in vari dicasteri in un’unica cabina di regia nazionale, dotata di competenze, mezzi, programmi, volti allo sviluppo della Nazione e quindi al benessere del Paese.

In termini concreti? Un nuovo, rafforzato ed autonomo Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica, che possa coordinare una vera e propria politica di sviluppo al Nord come al Sud e riscoprendo qui l’azione, con mezzi rinnovati e adatti ai tempi, di una grande personalità recentemente scomparsa, Gabriele Pescatore, che fece del Mezzogiorno la sua ragione di vita.