La riforma del Titolo V della Costituzione ha portato a una pericolosa sovrapposizione di poteri e prerogative tra Stato e Regioni, anche su materie chiaramente di interesse nazionale come l’approvvigionamento energetico. Con la nuova riforma, alcune competenze tornerebbero allo Stato, che potrebbe così organizzare meglio, senza il rischio di irragionevoli veti, questo settore strategico.

Borghini nave

Come e più di altre vicende degli ultimi anni, l’ormai famigerato referendum “sulle trivelle” dello scorso aprile ha suonato un campanello d’allarme rispetto al cortocircuito politico-istituzionale nel quale siamo finiti a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione del 2000.

Una riforma che, mal interpretando i principi del federalismo, ha creato su alcuni temi rilevanti - l’energia, le grandi infrastrutture, la tutela del territorio e la salvaguardia ambientale - una pericolosa sovrapposizione di poteri e prerogative tra Stato e Regioni, due livelli di governo inevitabilmente mossi da interessi e incentivi diversi.

Abbiamo più volte sottolineato che alla base della campagna “No Triv” ci fosse la cosiddetta sindrome Nimby, i signori del “No a tutto e a tutti”, la filosofia di alcuni movimenti ambientalisti troppo ideologizzati. In realtà, nessuno di questi movimenti è riuscito a convincere 500mila cittadini a firmare per il referendum. A promuoverlo sono stati, invece, nove Consigli regionali, in alcuni casi di colore politico sovrapponibile a quello dell’attuale governo nazionale.

Più che il merito delle norme sottoposte a verifica referendaria, l’iniziativa delle Regioni poneva in discussione la titolarità del potere in materia di energia, cioè se a decidere dovesse essere il Parlamento oppure le Regioni. Si è insomma usato un quesito referendario per condurre una battaglia inter-istituzionale figlia di quindici anni di conflitto tra Stato e Regioni (si vedano i dati riportati lo scorso anno da Marta Paris sul Sole 24 Ore).

Il referendum sulle trivelle non ha raggiunto il quorum e, nel caso specifico, si è impedito al paese di compiere una scelta sbagliata e costosa per tutti noi italiani. Il cortocircuito istituzionale è però ancora lì, intatto. Esso va risolto e un modo per farlo è quello di votare “Sì” al referendum istituzionale del prossimo autunno che, fra i suoi obiettivi più qualificanti, ha proprio quello di riportare in capo al Parlamento la responsabilità delle decisioni ultime sui temi di preminente interesse nazionale quale, appunto, è l’energia.

Su grandi temi che riguardano l’autonomia, l’indipendenza e la sicurezza nazionale, l’ultima parola non può che spettare al Parlamento. Come la difesa, la politica estera, la sicurezza e la salvaguardia del territorio, l’energia rientra certamente fra queste materie. Non è soltanto una questione economica o di costi, ma eminentemente geopolitica: per un paese povero di materie prime come il nostro, la diversificazione massima possibile delle fonti e dei paesi da cui approvvigionarsi è una scelta strategica fondamentale.

È una questione di tecnologie, che richiedono un forte impegno dello Stato nella ricerca e nell’innovazione. Influisce sul diritto di cittadinanza, perché a tutti va garantito l’accesso a costi ragionevoli all’elettricità. Ed è, infine, un argomento cruciale per lo sviluppo produttivo, per la crescita economica e per la salvaguardia ambientale. È talmente rilevante che il Presidente della Regione Basilicata Marcello Pittella, che pure aveva co-promosso il referendum, non ha potuto non riconoscere che a decidere su materie di questa portata debbono essere le istituzioni nazionali ed europee più alte, non certo le Regioni. Uno degli effetti più negativi della riforma costituzionale del 2001 è stata proprio la perdita della consapevolezza della profondità strategica e della dimensione nazionale ed internazionale della questione energetica. Questa consapevolezza dell’interesse nazionale va recuperata, dalla politica e dall’opinione pubblica.

Sbaglia chi pensa che l’accentramento nelle mani dello Stato determini necessariamente la centralizzazione del sistema energetico nazionale. Già prima della riforma costituzionale del 2001, il sistema energetico italiano vedeva la presenza di grandi imprese a controllo statale (Eni ed Enel, per citare le più note) e di innumerevoli imprese a controllo municipale o comunque locale. C’erano i grandi produttori ma anche i piccoli, pubblici e privati, italiani e stranieri. C’erano, soprattutto, importanti enti di ricerca e istituti preposti alla sicurezza di caratura mondiale. Era, insomma, un settore misto sufficientemente forte per stare sul mercato globale ma molto diffuso sul territorio.

Le liberalizzazioni e le privatizzazioni degli anni Novanta hanno aiutato l’intero modello energetico italiano a guadagnare in produttività, competitività e innovazione. Trasferire il potere alle regioni è stata, invece, una scelta azzardata, una concessione alla demagogia, inutile e controproducente. Non ha favorito lo sviluppo e la diversificazione della base elettrica, ma ha moltiplicato gli iter autorizzativi, complicandoli ( 13 anni per realizzare l’elettrodotto fra Calabria e Sicilia). Soprattutto ha fatto risorgere i localismi, ha favorito il manifestarsi di una mentalità predatoria verso i produttori (la pretesa, ad esempio, che il petrolio della Basilicata debba pagare dazio alla Puglia per approdare a Taranto) e ha fatto perdere di vista il punto focale dell’interesse nazionale. Bisogna tornare indietro, per andare avanti.

C’è da ristabilire una giusta gerarchia nelle responsabilità e da restituire certezza agli iter autorizzativi, garantendo, al contempo, il diritto dei territori ad essere informati e quello dei cittadini di potersi esprimere. In Svizzera lo hanno fatto per il traforo del Gottardo, che non ha conosciuto nessuna manifestazione No Tav ma solo una festa popolare per l’inaugurazione. Lo fanno in Francia con il metodo del ”pubblico dibattito” che dura tutto il tempo necessario per informare e correggere ma che poi, alla fine, decide e realizza. Perché in Italia non dovrebbe essere possibile?