Nell’opinione di molti, la Costituzione italiana è e deve rimanere immutabile, a garantire secondo giurisprudenza i privilegi di pochi spacciati come 'diritti acquisiti' per l’intera collettività. Contro la retorica dannosa della 'Costituzione a debito', il sì al referendum del prossimo autunno potrebbe far cadere un tabù.

Falasca monetine

Al fondo del 'bipolarismo costituzionale' italiano, cioè della contrapposizione tra chi difende l’immutabilità della nostra Costituzione e chi propone di modificarla e aggiornarla, ci sono due concezioni profondamente diverse di società e di democrazia.

Lungi dall’essere un mero ridisegno delle istituzioni formali e delle procedure, qualsiasi tentativo di riformare la Costituzione repubblicana è innanzitutto l’affermazione di una 'rottura' rispetto ad un ordine consolidato. Quale ordine? Quello di una Costituzione che – nel corso dei decenni – è stata sempre più usata come arma di conservazione di alcuni precisi interessi costituiti e privilegi radicati.

Qualche esempio? Il sacrosanto principio di indipendenza della magistratura usato come schermo dei singoli giudici dalle proprie responsabilità; l’autonomia degli enti locali usata per impedire incisive scelte di taglio di spesa da parte del governo; l’uso della definizione di “famiglia” e delle sue interpretazioni successive da parte della Corte per impedire il matrimonio omosessuale. Si potrebbe proseguire a lungo.

Almeno dal 1966, la Corte Costituzionale emana in materia economica sentenze che sembrano prescindere dalla logica e dalla disciplina fiscale. In quell’anno, la Consulta consentì il ricorso al debito pubblico come forma di finanziamento della spesa corrente, di fatto distorcendo la ratio dell’Articolo 81 della Costituzione, come originariamente voluto da Luigi Einaudi, secondo cui ogni legge di spesa deve contemplare i mezzi per farvi fronte.

Per lo Stato italiano e per la società italiana, quella sentenza costituzionale aprì la voragine del debito pubblico, l’illusione che ogni generazione potesse vivere e prosperare a spese di quelle future. In termini di assetto politico, la sentenza del 1966 risolse ai partiti un problema che l’Assemblea Costituente aveva scelto di non affrontare: quello della governabilità del Paese. Il ricorso al deficit facile e alla spesa pubblica trasformò l’Italia in una “democrazia acquisitiva”, per usare un’espressione di Antonio Martino, dove si sceglieva di non scegliere ma di spendere a debito, dove la pace sociale era assicurata grazie al foraggiamento dei principali gruppi di potere e di interesse, dove i problemi di disoccupazione, di investimento e di produttività venivano coperti dall’assorbimento di milioni di persone nel settore pubblico o parapubblico o dal sussidio in varia forma di qualche carrozzone industriale.

Come sia poi andata a finire, è storia nota: non solo la Repubblica Italiana ha uno dei debiti sovrani più consistenti del mondo, in termini assoluti e rispetto al Pil, ma il grado di dipendenza della società italiana dai soldi pubblici e dall’intervento pubblico è patologico.

Intendiamoci, nessuno crede che la riforma della Carta sottoposta al referendum del prossimo autunno possa risolvere come una bacchetta magica i problemi enumerati, anzitutto perché è una riforma delle istituzioni, dei poteri e delle procedure, non certo dei principi e dei valori della Costituzione. Tuttavia, è indiscutibile che la riforma avrebbe la forza politica e simbolica di rappresentare uno spartiacque, un prima e un dopo, una delegittimazione di una concezione della Costituzione come motore immobile e immutabile da preservare in nome di una rivoluzione antifascista istituzionalizzata. Come si è detto sopra: il superamento dell’ordine costituito, una pulizia dalle incrostazioni ideologiche dello status quo.

A prescindere dai giudizi puntuali sui singoli aspetti della riforma approvata nel 2015 e oggetto di referendum confermativo, vale per la Costituzione quel che per anni è valso per l’Articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Più che un limite in sé per un mercato del lavoro in cerca di flessibilità, quella disposizione normativa rappresentava il baluardo di una concezione “proprietaria” del posto del lavoro, il privilegio dell’inamovibilità contornato dalla retorica dei diritti sociali, il pregiudizio positivo riconosciuto al lavoratore e il pregiudizio negativo assegnato all’imprenditore. Per la Carta, mutatis mutandis, la riforma sarà l’equivalente delle modifiche apportate all’Articolo 18, prima dal governo Monti e poi dal governo Renzi: la rottura di un insostenibile tabù ideologico.