Il populismo non connota solo i movimenti politici antisistema, ma anche i modelli espressivi e le forme di comunicazione di partiti e leader mainstream. Narratività, personalizzazione, istantaneità. Il primato del 'mediatico' sul 'politico' nei meccanismi di formazione del consenso indica la strada per il successo, ma ha effetti politicamente instabili e effimeri.

Ventura propaganda

Ambiguo, dai confini semantici incerti, il termine 'populismo' ha invaso il discorso pubblico per designare ora movimenti estremisti e antisistema di destra e sinistra, ora atteggiamenti, retoriche, forme di comunicazione diffusi anche oltre i confini di quei movimenti.

Nel secondo caso, l’attenzione è posta su una serie di “indicatori” del populismo inteso come strategia: un linguaggio generico e semplificato, che illustra in modo estremamente schematico la realtà, i suoi problemi e le possibili soluzioni; la personalizzazione del messaggio politico, identificato con un leader, e la corrispondente ricerca di un dialogo diretto tra quel leader e i cittadini; l’individuazione di un avversario-nemico altrettanto generico, al quale addossare la responsabilità di ciò che si ritiene non funzioni, contrapposto a un “noi” formato dalla diade leader-gente comune, dove il leader si presenta come colui che rappresenta la gente comune, e la gente comune è dichiarata immune da colpe e vittima innocente di un “nemico”, da cui il leader intende difenderla.

A proposito del nemico, poi, è necessario fare una precisazione. Questa figura indefinita comprende sempre qualche establishment che tutela i propri privilegi a spese del “popolo”: può assumere la forma del gruppo che esercita pro tempore il potere di governo, ma anche quella di generici attori che hanno influenza sul potere politico, come la burocrazia, i sindacati, le banche, la finanza, o di istituzioni sovranazionali quali la Commissione europea o il Fondo monetario internazionale. Al tempo stesso, l’“altro” dal popolo può ricomprendere anche gruppi identificabili per un’appartenenza basata su caratteri ascrittivi o che comunque rimandano ad una condizione esistenziale: gli ebrei, gli islamici, gli immigrati, che cumulano spesso il dato esistenziale con quello etnico.

Siamo soliti attribuire la tendenza ad utilizzare quest’ultimo tipo di nemico a movimenti e leader di estrema destra, ma la tentazione di ricorrervi ed evocarlo può influenzare anche altri discorsi politici (si pensi a certi ammiccamenti di Nicolas Sarkozy alle retoriche lepeniste). Più generalizzato è il primo tipo di discorso, presente anche in leader e partiti della tradizione occidentale. Ciò che connota, infatti, la fisionomia di molte figure politiche contemporanee in occidente è proprio il ricorso a quel discorso pubblico che, lo si chiami o meno populista, utilizza le forme espressive e comunicative della politica populista. E questo, appunto, anche all’interno di partiti mainstream, nonché da posizioni di governo.

In questo quadro va ricordato il condizionamento esercitato dal processo di mediatizzazione della politica, che, come ricordavano Giampietro Mazzoleni e Winfried Schulz in un articolo del 1999 (Political Comunication, 16:3), costringe gli attori politici a misurarsi con le regole, gli obiettivi, le logiche e i vincoli dei diversi media. Il sistema mediatico richiede linguaggi semplici, quando non semplicistici; si nutre di storie, non di argomentazioni, privilegiando non le spiegazioni logiche, ma la costruzione di nessi di tipo narrativo, che individuano legami causali laddove esistono solo giustapposizioni di eventi; è alla continua ricerca di protagonisti da raccontare e, quindi, tende verso una personalizzazione che marginalizza temi ed idee.

Il sistema dei media – parliamo oggi di sistema integrato, ibrido, dove vecchi e nuovi media convivono contaminandosi reciprocamente –pare dunque costituire l’habitat ideale per una comunicazione diretta e semplificata, finalizzata alla ricerca del consenso, non all'obiettivo di condividere progetti di governo. La rincorsa verso il favore popolare, poi, assume un carattere continuo, complici i sondaggi che senza sosta rilevano umori, sentimenti diffusi, opinioni verso la politica e i politici. Ciò spinge ancor di più verso una sottovalutazione della progettualità e, soprattutto, di visioni di lungo periodo, a favore di tattiche di sopravvivenza per galleggiare nel sincopato e fluido contesto politico-mediatico.

Si capisce, dunque, come ciò che viene definito un po’ genericamente populismo, ma che potrebbe forse essere ribattezzato gentismo all’epoca dell’audience, possa trasformarsi in una modalità della politica non solo consona agli obiettivi che si pongono i diversi movimenti populisti, ma dominante in quanto costrittiva anche per leader e partiti di per sé non definibili populisti. I quali, nel tentativo di contrastare quei movimenti, finiscono in vari casi per adottarne le forme espressive e comunicative, quando non per sposarne almeno in parte i contenuti.

Con questo, non si vuole affermare che l’intreccio tra politica e sistema dei media oggi renda inevitabile tutto ciò, ma che lo incentivi e lo faciliti. Da un lato individua una strada più semplice e tentatrice per ottenere il consenso qui ed ora, dall’altro apre la strada all’interno dei partiti mainstream, o comunque che non si riconoscono negli estremismi di destra e di sinistra, a personalità populiste o gentiste che dir si voglia.

Un esempio ce lo fornisce oggi Donald Trump che fomenta istinti diffusi non solo contro l’establishment, ma anche contro gli immigrati, con una retorica rozza e semplicistica, dove affermazioni vere (poche) e false (molte) si confondono in una comunicazione deliberatamente violenta. Così ha proceduto trionfante verso la candidatura alla presidenza per il partito repubblicano, un partito che – almeno a livello di establishment – si troverà forse costretto a sperare nella vittoria dell’avversaria democratica, per non vedersi completamente snaturato.

La tentazione della strada più facile e la selezione di leadership più in sintonia con lo spirito dei tempi sembra avere investito anche proposte politiche che possiamo definire latamente liberali, che si coniughino a destra, al centro o a sinistra poco importa. Così, assistiamo all’emersione e al successo di personalità comunicativamente efficaci (per l’uso che fanno della comunicazione e per l’idoneità della loro immagine) che trasformano un messaggio potenzialmente liberale nel gentese dominante.

La politica europea ce ne offre parecchi esempi: dal leader di Ciudadanos, lo spagnolo centrista Rivera, al nuovo volto, passione dei media francesi, Emmanuel Macron, ministro dell’economia del governo Hollande – Valls (che ha superato in questo lo stesso Manuel Valls), fino al Presidente del Consiglio italiano Matteo Renzi. Ciò che li accomuna è, appunto, un messaggio semplificato che tende a far coincidere l’idea liberale con parole d’ordine come semplificazione, snellimento, sburocratizzazione, flessibilità e velocità, ma anche a dimenticare come la "libertà liberale", sul piano civile e su quello economico, si fondi soprattutto su un sistema di regole e istituzioni che la garantiscono e la tutelano.

Allo stesso modo la "messaggistica" semplificata elude il problema che la promessa liberazione del cittadino dal gravame politico - che siano le incrostazioni e i lacciuoli burocratici per l'attività economica, non meno che gli oneri di sistemi fiscali e di welfare obsoleti - richiede visioni sistemiche, che contemplino la effettiva sostenibilità e l'efficacia di lungo periodo delle misure adottate. Ma queste visioni e questi calcoli freddi e difficili non possono trovare spazio in una propaganda che promette miracoli qui ed ora, e che è legata, per sua stessa natura, a un principio di istantaneità.

La spinta gentista, dunque, non risparmia nemmeno il liberalismo che si trasforma in un gergo liberalese, un conglomerato di messaggi semplicistici che, peraltro, non si preoccupa di comprendere gli articolati e multiformi meccanismi delle nostre società e rischia di risolversi in politiche soprattutto simboliche, che non affrontano la complessità e, per questo, difficilmente possono aggredire efficacemente i problemi.

Tuttavia, vale la pena di sottolineare, in conclusione, come nell’attuale sistema politico-mediatico leader e messaggi figli del “gentismo dell’audience” siano esaltati e poi consumati con grande velocità dai pubblici occidentali, sempre più capricciosi e alla ricerca di risposte immediate; pubblici che sono specchio di leader narcisisti e generatori di mirabolanti promesse. Il gioco gentista, cioè, produce soluzioni instabili ed effimere. Non è facile immaginare cosa possa aiutare a correggere la rotta. Forse solo uomini e classi dirigenti con il coraggio e la capacità di sfuggire a questo gioco, anche se all’orizzonte, per ora, non appaiono.