L’Italia è il Paese delle corporazioni, un esempio da manuale di come il legislatore, per interesse personale o per calcolo elettorale, preferisca soccombere agli interessi delle lobby piuttosto che aprire alla concorrenza, anche se questo significa soffocare ulteriormente la nostra già asfittica economia.

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Quasi duecento anni fa, Frédéric Bastiat pubblicò la Petizione dei Fabbricanti di Candele, un racconto satirico in cui tutti coloro che sono coinvolti nel commercio di candele e altri prodotti legati all’illuminazione sottopongono una petizione al parlamento, per proteggere la loro attività dalla concorrenza di un rivale - a loro modo di vedere - spietatamente sleale: il Sole.

Noi domandiamo che vi piaccia approvare una legge che ordini la chiusura di tutte le finestre, lucerne, tramogge, puntelli, persiane, tende, imposte, occhi di bue, tapparelle” - chiedono i fabbricanti - “in una parola, di tutte le aperture, buchi, crepe e fessure attraverso le quali la luce del sole ha uso di penetrare nelle case, con danno delle belle industrie delle quali noi siamo orgogliosi di aver dotato il paese, che non possono senza ingratitudine essere abbandonate oggi ad una lotta così diseguale”.

L’Italia, si sa, è il paese delle corporazioni. Lo suggerisce il numero degli albi professionali: trentuno, buona parte dei quali risalenti alla prima metà del novecento. Lo conferma, soprattutto, la loro famigerata irriformabilità: tutte hanno il proprio Sole da combattere, e molto spesso riescono perfettamente nell’intento. Da anni - anzi decenni - economisti e analisti di ogni credo invocano a gran voce un piano di liberalizzazioni che scuota l’economia dal lato dell’offerta, beneficiando i consumatori e promuovendo concorrenza e innovazione, a costo zero per le casse pubbliche. Eppure, nel paese delle corporazioni, quella dei consumatori conta poco o nulla, pur essendo la più numerosa. E così a prevalere è quasi sempre lo status quo.

Il motivo lo spiegava già la teoria della Public choice: in democrazia, gli interessi diffusi sono destinati a soccombere rispetto a quelli - concentrati, organizzati e di breve termine - dell’una o dell’altra lobby. I benefici di una liberalizzazione sono, nella maggior parte dei casi, diluiti nel tempo e distribuiti fra i cittadini; colpire un gruppo organizzato, viceversa, significa con ogni probabilità perderne il sostegno alle urne. E se - come scrisse James Freeman Clarke - uno statista guarda al successo della nazione e alle prossime generazioni, un politico guarda invece al successo del partito e alle prossime elezioni.

Proprio per supplire a quest’istinto “breveterminista”, nel 2009 il parlamento impose al governo italiano di presentare ogni anno un disegno di legge che - recependo le segnalazioni e i suggerimenti dell’Autorità antitrust - adottasse misure pro-concorrenziali. Un impegno, tuttavia, rimasto lettera morta fino all’attuale governo, cui va dato il merito di avervi finalmente tenuto fede. Era il febbraio 2015 e Matteo Renzi, presentando la bozza del ddl Concorrenza insieme al Ministro Guidi, si dichiarò consapevole che il testo avrebbe incontrato le resistenze delle lobby in Parlamento. “Ma noi le sfideremo”, aggiunse il premier. Sarebbe bastato? Col senno di poi, la risposta è no. Purtroppo.

Rispetto alle raccomandazioni dell’Agcm, il testo proposto dal governo nel 2015 nacque già orfano di alcuni dei temi più caldi nel dibattito pubblico. E se è vero che non ci si può aspettare dalla legge annuale sulla concorrenza una regolamentazione organica di interi settori - come nel caso del trasporto pubblico locale, delle procedure di accreditamento delle strutture sanitarie private o dei porti - la mancata liberalizzazione della vendita dei farmaci di fascia C o di libri e quotidiani non può tuttavia passare inosservata. Anche e soprattutto considerato tutto quello che in quella legge non c’è mai stato, nemmeno secondo le prime indiscrezioni circolate sul provvedimento: basti pensare agli ordini professionali, appunto.

Al netto di tutto questo, il modo in cui il ddl Concorrenza è stato progressivamente “spolpato” durante i suoi passaggi parlamentari la dice lunga sulla difficoltà di adottare politiche pro-concorrenziali. Nel testo originario arrivato in prima lettura alla Camera, ad esempio, si prevedeva la piena portabilità dei fondi pensione. Ebbene: nel corso dell'esame in sede referente, nelle Commissioni riunite VI (Finanze) e X (Attività produttive), sono state approvate alcune proposte emendative (di iniziativa parlamentare) che, hanno, nella sostanza, depotenziato la ratio dell'intervento modificativo della normativa in materia.

È stata, infatti, soppressa sia la previsione che consentiva che ai fondi pensione destinati a specifiche categorie aderissero, in forma individuale o collettiva, anche soggetti non appartenenti alla categoria di riferimento del fondo, sia quella che sopprimeva il rinvio ai limiti ed alle modalità stabiliti dai contratti o accordi collettivi, anche aziendali, per la portabilità dell'eventuale contributo a carico del datore di lavoro. Il tutto è stato "sostituito" da un non meglio precisato obiettivo di “aumentare l’efficienza delle forme pensionistiche complementari collettive”, cui è finalizzata la convocazione di un tavolo di consultazione interministeriale per favorirne il processo di riforma. Lo stesso destino è stato riservato all’autentica delle sottoscrizioni per le compravendite di immobili non residenziali (box, negozi, ecc.) sotto i centomila euro, che doveva essere aperta agli avvocati e che invece, salvo colpi di scena, resterà esclusivo appannaggio dei notai: anche in questo caso sono stati approvati, in sede referente, emendamenti parlamentari interamente soppressivi della disposizione introdotta.

C’è poi chi non è riuscito a far stralciare completamente le norme del provvedimento, ma ne ha ridotto la portata a proprio uso e consumo. Si pensi alla fine dell’esclusiva sulle notifiche degli atti giudiziari a mezzo postale, ereditata da Poste Italiane nonostante la teorica liberalizzazione del settore: era prevista per il giugno 2016, ma evidentemente la quotazione in borsa di Poste l’ha fatta slittare di un anno; è stato infatti approvato in Assemblea un emendamento delle Commissioni che la rinvia al giugno del 2017. Un regalo che sarebbe impensabile per una società che di privato abbia più della veste formale.

Le buone notizie, sia chiaro, non mancano. Sempre che resista indenne all’esame del Senato, l’apertura (parziale) degli studi legali e delle farmacie a soci di capitale costituisce un passo in avanti verso forme di governance più competitive di attori economici tanto peculiari, così come sono da salutare con favore - ad esempio - l’ampliamento del bacino territoriale dei notai e il tentativo di aumentare la concorrenza tra prodotti finanziari disincentivando il bundling di mutui e prestiti ad altri servizi che possono essere comprati altrove.

Si pensi, ancora, a una delle riforme di maggior rilievo: il superamento del regime di “maggior tutela” nel settore energetico - secondo cui i consumatori che non abbiano scelto un fornitore sul mercato libero sono approvvigionati a condizioni stabilite trimestralmente dall'Autorità per l'energia elettrica, il gas ed il sistema idrico (Aeegsi) - e la conseguente piena liberalizzazione dei prezzi di energia elettrica e gas, con una decorrenza che dovrebbe essere confermata per l'inizio del 2018.

A queste misure si aggiungono interventi più propriamente consumeristici che pro-competitivi. Si pensi a quelli in materia assicurativa (con l’introduzione d’incentivi per garantire una comunicazione più trasparente tra cliente e compagnie assicurative, e di sconti obbligatori sulla RC auto), nel settore delle comunicazioni (con il limite a ventiquattro mesi per i vincoli riguardanti l’acquisto di servizi audiovisivi comprensivi di offerte promozionali), o in quello bancario (con il tetto ai costi telefonici dei servizi di assistenza e la comparabilità dei costi dei servizi più diffusi).

In ogni caso, ciò che emerge dal provvedimento, al di là delle singole misure, è la sensazione che l’Italia resti allergica alla concorrenza. Emblematico, in questo senso, è il plebiscito ricevuto in Assemblea alla Camera da un emendamento parlamentare che sancisce la nullità delle clausole di parity rate (434 favorevoli, 4 contrari e 3 astenuti). Si tratta di clausole che gli intermediari di prenotazioni alberghiere online - Booking ed Expedia, ad esempio - inseriscono nei contratti con gli alberghi per impedire a questi ultimi di praticare sul proprio sito web prezzi differenti da quelli praticati sul portale dell’intermediario. Senza entrare nel merito, dice tutto il fatto che una norma che limita la libertà contrattuale entri a far parte di un disegno di legge chiamato a promuovere la concorrenza.

Altrettanto, o forse ancor più significativi sono gli emendamenti-fotocopia presentati al Senato da cinque diversi gruppi parlamentari per sancire che le società operanti nel settore odontoiatrico siano possedute per almeno due terzi da iscritti all’albo degli odontoiatri: un provvedimento che non solo non tende verso una maggiore concorrenza, ma che al contrario si prefigge perfino di ridurre quella esistente. Non sarà come chiedere al parlamento di far chiudere tutte le finestre del paese per impedire alla luce del Sole di penetrare nelle case, ma poco ci manca.

Mentre questo articolo sta per andare in stampa, l'insufficienza del provvedimento, che costituisce un banco di prova significativo della Renzinomics, sembra avere stimolato ulteriori emendamenti da parte dei relatori e del governo al testo oggi all'esame della 10a Commissione (Industria, commercio, turismo) del Senato. Sinceramente non sappiamo prevedere a quali esiti possano portare. Saremmo lieti di scoprire, alla fine, che il nostro pessimismo è stato smentito.