L’Italia è un Paese in declino, con una mentalità vecchia: questo processo non è iniziato con la crisi del 2008, ma ha le sue radici negli anni ’60, quando il boom economico e demografico illuse tutti che si potesse vivere in eterno a credito sulle spalle delle generazioni successive e che l’unico merito consentito fosse l’anzianità.

panci debiti sito

Eravamo un paese in declino. La ricchezza pro capite, gli standard dei servizi pubblici, l'obsolescenza delle strutture e infrastrutture pubbliche, le finanze dello stato parlavano chiaro: continuare a vivere e lavorare in questa terra significava impoverirsi sempre di più.

Gli anni della grande crisi avevano reso più evidenti i sintomi e accelerato un processo con radici profonde e che partiva da lontano. L'arretramento dell'economia e della società non era semplicemente il portato di una congiuntura temporanea. E non sarebbe certo svanito con gli esorcismi della politica.

All'epoca, sapevamo già che il peggio non era alle nostre spalle ma davanti a noi. L'invecchiamento demografico doveva ancora farsi sentire. Eravamo consapevoli che, a bocce ferme, nei decenni successivi il declino si sarebbe aggravato. Saremmo diventati un paese ancora più vecchio di età, con meno occupati, e ci sarebbe stata sempre meno ricchezza da consumare e da investire, e ancora meno da redistribuire a chi ne avesse avuto veramente bisogno oltre che alle caste e ai ceti parassitari.

Contrastare gli effetti meccanici, inevitabili, dell'invecchiamento demografico sarebbe stato possibile solo aumentando la produttività del lavoro. Ma per riuscire appena a compensare gli effetti avversi della demografia, avremmo dovuto fare in modo che la produttività crescesse di almeno 0,6 punti percentuali in media all'anno. A voi oggi sembra un obiettivo facile da conseguire. Invece era un vero e proprio baluardo. Da tre decenni cresceva in media solo dello 0,3 per cento. La metà di quel traguardo che, è bene essere chiari, ci avrebbe evitato di arretrare, ma ci avrebbe lasciato comunque al palo.

Gli economisti una diagnosi ce l'avevano pure. Come avrebbe potuto mai crescere la produttività se gli investimenti in capitale fisico e soprattutto quelli in capitale umano erano sempre più scarsi? Se i processi produttivi da tempo immemore non riuscivano più a incorporare i risultati del progresso tecnologico, necessari per aumentarne l'efficienza complessiva e la competitività? Ma le loro spiegazioni, col passare del tempo, si erano fatte sempre più complicate e incomprensibili. Anche perché non riuscivano mai a mettersi veramente d'accordo tra di loro. E le ricette che proponevano, in pratica, si erano rivelate sempre inapplicabili.

La verità è che tutto poteva essere ricondotto a una sola ragione di fondo. Una ragione della quale avevamo preso atto troppo tardi: il nostro paese stava invecchiando nella demografia, ma già da molto tempo era diventato vecchio nel modo di pensare, di decidere, di fare le scelte individuali e collettive.

Cominciò a diventare “vecchio dentro” molto prima che l'invecchiamento demografico apparisse all'orizzonte. Quando ancora risuonava l'eco di un favoloso boom economico. Sul finire degli anni '60 del secolo breve, a segnare il nostro destino furono il deficit spending indiscriminato e l'invenzione del sistema pensionistico retributivo a ripartizione. L'illusione di costruire il paradiso socialista abusando del welfare pubblico, in un sistema ancora fortemente corporativo nella politica e nell'economia, trasformò una società giovane e piena di energie vitali in un paese a misura di anziano.

Il lavoro non fu visto più come creazione di valore, bensì come anticamera della pensione. Nelle aspirazioni di gran parte dei giovani e meno giovani non ci fu più spazio per il rischio e l'investimento d'impresa, visto piuttosto come condizione di minorità. Lo stipendio fisso e una lauta pensione divennero il traguardo prevalente del lavoratore rappresentativo e dell'elettore mediano.

Piano piano la seniority ebbe priorità su ogni cosa. In primo luogo sulle capacità e sul merito, che soprattutto nelle grandi organizzazioni pubbliche e private erano visti come pericolosi elementi di destabilizzazione. Così, anche la struttura dei salari e degli stipendi fu concepita per far abbassare un tantino la cresta ai più giovani, che sempre più spesso venivano tacciati di essere delle teste calde. Lo stipendio non era proporzionato alle capacità, alla quantità e qualità del lavoro svolto. Cresceva semplicemente in modo lineare con l'età, e non vi era grande incentivo a investire in istruzione o accumulare capitale umano.

Un giovane uomo che avesse voluto investire tempo e denaro per conseguire una laurea, nell'arco della propria vita lavorativa avrebbe percepito una retribuzione complessiva superiore di appena qualche punto percentuale rispetto a quanto avrebbe comunque percepito senza studiare. Per una donna che avesse deciso di studiare, invece, l'investimento in istruzione sarebbe stato ancora meno redditizio.

Tutto rimase apparentemente immutato per lungo tempo. Ma, dopo la caduta dei muri, le ondate emigratorie furono massicce. Arrivarono a sfiorare le duecentomila teste all'anno. Fuori dal paese, quelli che avevano studiato guadagnavano di più. Il rendimento dell'investimento in istruzione in media era il doppio di quello offerto da noi. E non parliamo dei talenti. Mortificati in patria, divenivano sempre più spesso uomini di successo solo dopo essere emigrati.

Anche senza istruzione, i giovani guadagnavano comunque di più andandosene via, semplicemente per il fatto di essere tali. Perché mai avrebbero dovuto restare in un paese per vecchi?

Così, capitale umano, energia vitale, elasticità mentale, capacità e competenze necessarie a recepire e gestire l'innovazione se ne andavano sempre più in massa da questo paese. Pochi di noi si rendevano conto che, insieme alle ultime speranze di centrare l'obiettivo della produttività, se ne andavano in fumo anche i miliardi e miliardi di euro che avevamo speso per la formazione di tutti quelli che ci lasciavano. Eravamo diventati talmente autolesionisti da spendere il denaro nostro per far crescere piante che avrebbero dato i frutti in terre straniere. Ma nessuno si scandalizzava e nemmeno pareva appassionarsi più di tanto al problema.

Sui media vedevo sempre e solo gli stessi pensionati, lavoratori prossimi alla pensione, esodati pieni di risentimento. Tutti in piazza a chiedere il rispetto dei “diritti acquisiti”. E, nella piazza accanto, i sedicenti “precari” solidarizzavano con loro, mentre rivendicavano un fantomatico “diritto al lavoro”. Nessuno considerava l'ipotesi che proprio i “diritti acquisiti” potessero essere causa della precarietà. Tutti erano ancora convinti, invece, di poter entrare, prima o poi, nel paradiso del welfare socialista.