Taiwan e Hong Kong offrono due sfumature diverse di come Pechino intende i rapporti con la controparte. Se il dibattito su alcune questioni solo apparentemente tecniche o formali rimane uno scoglio nei rapporti con Taipei, con Hong Kong la questione è più sostanziale e legata alla natura stessa del potere cinese, che non prevede la nomina popolare dei candidati per l'ex colonia britannica. In entrambi i casi, la possibilità di dialogo rimane aperta, ma con modalità differenti.

Buzzetti Spalletta Hongkong grande

Il governo cinese ha mostrato diversi segnali di riavvicinamento con Taipei negli ultimi mesi, a cominciare dai colloqui che si sono tenuti lo scorso anno a Nanchino tra i rappresentanti politici dei rapporti con la controparte. Il riavvicinamento riguarda soprattutto il Kuomintang, storico avversario nella guerra civile e oggi, dei due partiti di Taiwan, il più aperto al dialogo e vicino a posizioni concilianti con Pechino.

L'incontro d'inizio maggio tra il presidente cinese Xi Jinping, nella veste di segretario generale del Pcc, e il presidente del Kuomintang Eric Chu arriva in un momento di debolezza del Partito Nazionalista taiwanese. Il Kuomintang è alla ricerca del consenso perduto dopo il fallimento elettorale di novembre scorso, quando alle elezioni amministrative il Partito Democratico Progressista (Dpp) di opposizione e di orientamento indipendentista si è imposto in tutti i maggiori centri del Paese, provocando le dimissioni in toto del governo dell'isola e dello stesso presidente Ma Ying-jeou dalla carica di presidente del Kuomintang. A uscirne indenne, allora, fu il sindaco di Nuova Taipei, proprio quell'Eric Chu che, riconfermato alla guida della città, a gennaio scorso è stato scelto come presidente del Partito Nazionalista.

L'arrivo di Chu a Pechino segna per il Kuomintang l'inizio della ripresa del partito, che non ha ancora un candidato per le presidenziali dell'anno prossimo, e raccoglie l'appoggio implicito dei vertici cinesi, come era già accaduto - senza successo - in occasione delle scorse amministrative. A pochi giorni dalla tornata elettorale, l'Ufficio per le Relazioni con Taiwan del Pcc aveva dovuto smentire di avere preso posizione contro l'outsider indipendente Ko Wen-jie alla carica di sindaco di Taipei, sostenuto dal Dpp e poi uscito vincente dalle urne. Proprio in quei giorni, però, i media di Taiwan pubblicavano le immagini di manifesti a sostegno del candidato del Kmt, Sean Lien, al World Expo Exhibition and Convention Center di Shanghai: un chiaro segnale di endorsement da parte della Cina, commentava il Taipei Times, che non si era verificato neppure per la rielezione alla carica di presidente di Ma Ying-jeou nel 2012.

L'importanza del rapporto con la Repubblica Popolare per il futuro di Taiwan è stata sottolineata negli ultimi giorni di aprile proprio dal presidente Ma Ying-jeou, che ha sfidato pubblicamente la candidata alle presidenziali del 2016, Tsai Ing-wen, sul tema dei rapporti con Pechino, nel caso di una vittoria alle elezioni del prossimo anno. Tsai Ing-wen aveva già ribadito la volontà di mantenere lo status quo con la Cina continentale, ma il presidente aveva pubblicamente chiesto alla candidata come pensasse di riuscirci, senza il riconoscimento del principio della "Unica Cina", scaturito dal Consenso del 1992, che a tutt'oggi stabilisce i rapporti tra i due lati dello stretto di Formosa.

La considerazione ha conseguenze di portata vitale per Taiwan: la dipendenza dalla locomotiva economica cinese è cresciuta negli ultimi anni, e sullo sfondo dei complicati rapporti politici, venati di sfumature esistenziali per l'isola, si cela il desiderio di Taipei di contare di più sui palcoscenici internazionali, a cominciare dalla partecipazione alla Asian Infrastructure Investment Bank. La candidatura di Taiwan, pur presentata in tempo utile, è stata bocciata dal Ministero delle Finanze cinese perché nella richiesta formale il nome dell'isola rimandava all'idea di uno Stato indipendente, ipotesi inaccettabile per Pechino.

Se con Taiwan, e in particolare con il Kuomintang, il dialogo avviene in maniera diretta e ufficiale, con Hong Kong la mediazione viene fatta dall'attuale classe dirigente, che esclude i partiti di impronta democratica, in aperta opposizione al governo locale. Il capitolo più significativo nel rapporto di Hong Kong con la Cina, dopo le proteste dello scorso anno, è segnato dalla proposta di legge elettorale presentata ad aprile dai dirigenti dell'ex colonia britannica, e oggi in attesa di approvazione parlamentare.

L'assenza della nomina popolare dei candidati - vero nodo del contendere tra manifestanti e governo locale - è stata ancora una volta contestata da centinaia di manifestanti che si sono radunati all'esterno del palazzo dell'Assemblea Legislativa, il mini-parlamento dell'isola. Neppure le timide dichiarazioni sulla possibilità di cambiamenti in corsa pronunciate dalla numero due dell'amministrazione di Hong Kong, Carrie Lam (di recente in visita in Italia), hanno scaturito una reazione diversa dal rifiuto tra i militanti dei movimenti pro-democratici.

A protestare contro la nuova proposta di legge elettorale sono i simpatizzanti e gli aderenti ai gruppi che hanno animato le contestazioni di Occupy Central, tra settembre e dicembre scorsi, chiedendo la testa di CY Leung, colpevole, ai loro occhi, di essere prono ai desiderata di Pechino. La risposta delle autorità è stata secca. Il capo esecutivo di Hong Kong ha in un primo momento accusato i manifestanti di essere anti-democratici, e ha poi sottolineato come la proposta del governo possa essere l'ultima occasione fino al 2024 per vedere un cambiamento alla legge elettorale.

Il mantenimento del Comitato pro-Pechino di 1200 membri che seleziona i candidati finali alla corsa elettorale preclude, però, il dialogo con i democratici, che chiedono la possibilità di eleggere direttamente i loro rappresentanti, senza alcuna intermediazione. Il muro contro muro è stato confermato anche da uno dei promotori di Occupy Central, Chan Kin-man: in un'intervista al South China Morning Post, il promotore delle occupazioni dello scorso anno ha spiegato che l'unica scelta per i deputati pro-democratici è quella di votare in maniera compatta contro la proposta di legge.

I 75 giorni di proteste - definiti da più parti come il più grande movimento di opposizione al governo centrale cinese dopo la contestazione studentesca di piazza Tian'anmen del 1989 - hanno lasciato un segno anche a Pechino. Il rifiuto dei primi giorni di considerare legittime le manifestazioni, con editoriali dai toni forti sui principali quotidiani cinesi, ha progressivamente lasciato spazio alla riflessione e alla necessità di imparare a gestire, come scriveva il Global Times nel dicembre scorso, i movimenti di "street politics" come quello di Occupy Central.