La sfida del secolo è quella di far coesistere la "normalità" della potenza cinese con la "eccezionalità" democratica dell'Occidente. La Via della Seta sarà lastricata di insidie o di opportunità? Dipenderà da come sapremo, oggi, affrontare questa sfida.

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Non sappiamo con precisione quando i cinesi iniziarono ad esportare in Occidente la loro seta lungo le rotte commerciali dell'Asia centrale. Dal 115 avanti Cristo abbiamo notizie certe, perché quell'anno Mitridate II, re dei Parti, strinse un'alleanza con Wu Ti, il grande imperatore della dinastia Han. Meno di un secolo dopo, Giulio Cesare possedeva tessuti di seta. Durante il principato di Ottaviano Augusto il commercio crebbe decisamente, per poi giungere al suo apice nel periodo tra il 90 e il 160 dopo Cristo, in concomitanza con la pace e la stabilità di cui in quell'epoca godettero non solo Roma e la Cina, ma anche le terre e le regioni che le dividevano. In cambio della seta i mercanti cinesi cercavano oro, argento, corallo o vetro, che dalla Spagna, dai Balcani e dal mar Rosso raggiungevano i lembi più orientali dell'Impero Romano, dai quali procedevano verso oriente.

Queste condizioni ottimali per lo scambio non durarono a lungo, perché tanto Roma quanto la Cina persero la presa sulle steppe asiatiche, ma le vie della seta non smisero mai di essere battute. Da millenni, insomma, la Cina è un protagonista assoluto dell'economia globale. Quella che a troppi osservatori distratti appare come una "novità" dell'ultimo ventennio, l'ascesa del Dragone nell'economia globale, è semplicemente il ritorno ad una normalità che la Cina aveva abbandonato nel XIX secolo, non cogliendo la Rivoluzione Industriale.

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Stranamente, o probabilmente no, i secoli in cui la Cina si è "assentata" corrispondono anche al tempo che ha visto nascere e (pur tra varie vicissitudini) consolidarsi in Occidente la democrazia liberale, i diritti universali dell'uomo, la società aperta, lo stato di diritto e il welfare. Avanzamenti straordinari, a cui non vogliamo rinunciare. Condizioni che consideriamo ottimali per promuovere libertà, creatività e innovazione, ma che nel breve periodo risultano "costose" e delicate. Nonostante le illusioni degli Anni Novanta, quando la Caduta del Muro di Berlino ci aveva persuasi che tutto il mondo volesse vivere come viviamo noi, il modus occidentalis fa fatica ad attecchire altrove. La pizza, la musica, il calcio e l'hamburger spopolano nel pianeta, ma non è così per la rule of law e la libertà individuale.

Si illude chi pensa – con il ghigno di chi la sa lunga e cita la realpolitik - che si possa prescindere da tutto ciò. Se non cogliamo, ad esempio, l'allarme di alcuni paesi asiatici per l'eccessivo espansionismo di Pechino nel Mare Cinese Meridionale, dove ogni scoglio diventa un pretesto per rivendicare sovranità sulle acque territoriali, ci troveremo presto ad avere simili ed enormi problemi con la Cina rispetto all'Artico, all'Antartide, alla Rete, alla Luna, a Marte e allo Spazio. Se i paesi europei non terranno in forte considerazione le obiezioni di governance che Giappone e Stati Uniti fanno alla neonata Asian Infrastructure Investment Bank, finiranno per essere preziosi paraventi per le ambizioni di potenza altrui. Le pulsioni democratiche di Hong Kong sono e saranno sempre di più una cartina al tornasole di quel che il regime mandarino tollera o non tollera.

Riusciremo a conciliare la "normalità" della potenza cinese con la "eccezionalità" democratica dell'Occidente? È la sfida del secolo. Nel suo recente libro "The Hundred Year Marathon", l'ex consulente dell'amministrazione Reagan Michael Pillsbury ha parlato di una vera e propria "strategia segreta" di Pechino per sostituire gli Stati Uniti come superpotenza globale. Meno definitiva ma altrettanto netta è la visione di Alberto Forchielli, presidente di Osservatorio Asia e partner del fondo d'investimento Mandarin, che intervistato da Strade ha dichiarato: "Pechino sta apertamente cercando i suoi spazi vitali per assicurarsi approvvigionamenti strategici e mercati e questo inevitabilmente confligge con gli interessi americani e occidentali".

Se questo è lo scenario, bisogna saper agire con determinazione e lungimiranza. L'Europa e l'America debbono consolidare e valorizzare i loro rapporti con il Giappone, la Corea del Sud e i cosiddetti paesi Asean (in tutto, 800 milioni di abitanti), perché l'Estremo Oriente non è solo la Cina. Se nel Sud Est asiatico decolleranno finalmente l'integrazione economica e una maggiore consonanza politica, e se il Giappone tornerà dinamico, si potrà innescare una positiva competizione geopolitica tra grandi attori regionali. Anche nella vicenda della AIIB, che rappresenta un epocale successo diplomatico di Pechino (ma anche la prova che il modello di Bretton Woods è ormai paralizzato dalla sua autoreferenzialità), bisogna pretendere dalla Cina una gestione il più possibile equa e trasparente. "Pechino non è abituata a gestire il consenso e le alte aspettative dei paesi che hanno aderito all'iniziativa; l'AIIB potrebbe essere una vittoria di Pirro", ha commentato ancora Forchielli.

La nuova via della seta è un'opportunità per l'Europa, ma lo sarà davvero e stabilmente solo se non subiremo le condizioni altrui. Per l'Italia, come spiega a Strade Federico Donato, presidente della Camera di Commercio italiana a Singapore, si stanno aprendo opportunità incredibili. La percezione del nostro paese è oggettivamente in via di miglioramento, abbiamo il know-how e la qualità di cui le economie asiatiche hanno fame, c'è maggiore interesse per gli investimenti diretti nel nostro territorio. Ora bisogna non sciupare questa chance.

Alle interviste ha collaborato Alessandra Spalletta