Secondo i più freschi sondaggi condotti in Grecia, man mano che Alexis Tsipras fa crescente mostra di non voler cedere alle pressioni dei partner europei per un'estensione dell'attuale programma di aiuti (e relative condizioni), il suo consenso interno va irrobustendosi in modo sensibile, tanto che, nel caso di elezioni, oggi il 45% degli aventi diritto dichiara che voterebbe per Syriza e circa il 70% della popolazione si dice d'accordo con le mosse del governo.

Varoufakis

Se a ciò si aggiunge che, dopo anni di sforzo fiscale, la Grecia gode ormai di un saldo primario positivo, cioè è in grado, almeno in teoria, di finanziarsi in modo autonomo al netto degli interessi - circostanza normalmente ritenuta una sorta di incentivo al default - , secondo i più si capisce meglio perché ad Atene non appaiano intenzionati a ridimensionare le promesse fatte durante la campagna elettorale.

Ora, naturalmente tutto è possibile, compreso il fatto che la mancanza di un accordo dopo due riunioni dell'Eurogruppo rappresenti in realtà una sorta di signalling per ottenere credibilità presso il rispettivo pubblico interno - "avete visto, noi non ci pieghiamo facilmente" -, in attesa di "vendere" loro un prossimo compromesso. Tuttavia, negli ultimi giorni, complice il fatto che il ministro delle finanze greco Yanis Varoufakis è un accademico esperto di teoria dei giochi, tali e tante sono state le interpretazioni circa le mosse, le strategie, le tattiche, i bluff dei vari attori in campo, da suggerire di tenersene per una volta alla larga, per esaminare appunto i due argomenti che molti ritengono rafforzino la posizione di Tsipras, la supposta rivincita della democrazia ed il fatto che la Grecia abbia ormai raggiunto il tanto agognato avanzo primario.

Innanzitutto, una premessa: nella ricostruzione che Tsipras propone dei mali che affliggono la Grecia, si pone la classica questione del controfattuale: c'è quello che vediamo, la Grecia ha vissuto anni di contrazione economica assai rilevante, perdendo circa il 25% del prodotto (tornato, in ogni caso, al livello del 2004, ovvero a prima che il boom artificiale alimentato da credito e spesa facile avesse inizio), e per questo stato di cose ci sono dei presunti colpevoli da additare e screditare; e poi c'è quello che non vediamo, ovvero l'universo parallelo di ciò che sarebbe accaduto alla Grecia dal 2009 in poi se l'aiuto internazionale - ad oggi circa 240 miliardi di euro - non fosse stato disponibile. Cio che spesso manca, e vale per i politici quanto per i commentatori, è una onesta ammissione di quanto compromesse fossero le cose, e del fatto che strade indolori non ne esistessero. Anzi, non senza ragione, sebbene con intento leggermente provocatorio, Daniel Gros ha sottolineato come la presenza della Troika abbia di fatto permesso di diluire l'austerity, ché senza aiuti la Grecia avrebbe dovuto chiudere il deficit fiscale da oltre il 10% del Pil a zero immediatamente, cioè auto-imporsi una cura ben più draconiana di quella che è oggi oggetto del contendere.

Il punto è che alla Grecia, per tirarsi fuori dai guai, sono serviti e, soprattutto, serviranno aiuti esterni (parliamo di decine di miliardi ex novo, per intenderci), ed è qui che l'argomento della sovranità democratica trova i suoi limiti. Se è vero che Tsipras ha un forte mandato popolare per adottare un certo tipo di politiche, è vero parimenti che esse, in particolare nella misura in cui comportano il reperimento di finanziamenti aggiuntivi (si pensi alla volontà di cancellare le privatizzazioni), finanziamenti che il mercato non è chiaramente disposto a concedere, equivalgono alla non tanto implicita volontà di redistribuire risorse altrui, inclusi, è noto, paesi più poveri della Grecia in termini di reddito pro capite, risorse che non sono, né possono essere, nella disponibilità democratica di Atene. Non per nulla, a dispetto di certe previsioni (e delle speranze di Tsipras stesso, che ne esce indebolito), il fronte europeo appare complessivamente compatto, e la fermezza rispetto a certe richieste non è solo quella scontata di Berlino, ma anche di Lisbona, Dublino, Madrid e Vilnius.

In altre parole, la legittima preoccupazione per la democrazia, "cuts both ways", come si dice: ciò che è vero per la Grecia è vero anche per i paesi creditori - i cui prestiti non sono per nulla virtuali come qualcuno fantasiosamente asserisce -, i quali hanno il dovere di prendersi cura del denaro dei propri contribuenti. Ciò, sul piano intellettuale almeno, dovrebbe spingere a stemperare l'arroganza ammantata di democrazia che promana da Syriza, o, quantomeno, la simpatia che essa tende a ricevere tra i commentatori di più varia estrazione.

Né, a ben vedere, e su un piano più urgentemente concreto, l'argomento del saldo primario positivo -sempre che ancora ne esista uno - appare poi troppo cogente. Al contrario, esso è piuttosto tenue. Le incertezze delle ultime settimane, infatti, hanno provocato una ben documentata accelerazione della fuga di depositi dalle banche elleniche. In caso di mancato accordo, cioè se la Grecia restasse per la prima volta, dopo anni, senza un piano di aiuti, tutto lascia pensare che tale fuga si trasformerebbe in una sorta di valanga, perché il default sovrano e, a stretto giro, del sistema bancario, diventerebbero allora possibilità reali. Le conseguenze economiche sarebbero molto dure, e la contrazione creditizia e la probabile nuova recessione annullerebbero, in sostanza, l'avanzo faticosamente ottenuto. Inoltre, nel mese di gennaio le entrate fiscali si sono assestate a circa un miliardo sotto le attese e, non scordiamolo, le promesse elettorali che Syriza dice essere irrinunciabili basterebbero da sole a inghiottire buona parte del surplus medesimo.

Il risultato è che, a meno di non volersi avventurare per la strada più estrema e, in ultima analisi, distruttiva di un distacco dall'unione monetaria (distacco, peraltro, di cui molto si parla, ma che nessuno sa davvero se e come potrebbe praticamente avvenire), le opzioni appaiono in verità piuttosto limitate, e, ancora una volta, dipendenti dalla volontà altrui di estendere nuovo credito al paese, volontà che non esiste da nessuna parte, se non presso i partner europei.

Anche per queste ragioni è bene considerare con attenzione la minaccia greca, certo, ma non esagerarne la portata, e ciò non tanto adesso, ché una qualche forma di accordo temporaneo verrà quasi sicuramente trovato nei prossimi giorni (e su di una linea vicina a quella voluta dall'Europa), quanto nei mesi a venire, quando la sostanza vera di un nuovo programma di aiuti dovrà essere negoziata, e la condizionalità strettamente definita.

Lì più che mai sarà necessario tenere il punto in modo fermo, perché è impossibile che un solo paese, per giunta molto piccolo, possa essere ancora a lungo fonte continua di instabilità e preoccupazione per un continente di centinaia di milioni di abitanti, e, fino a quando Atene non si sarà realisticamente incamminata su di un sentiero credibile di riforme, resterà una ferita aperta e continuamente bisognosa di essere tamponata. Sarà necessario, in altri termini – possa piacere o meno -, far saltare la contraddizione implicita nella promessa elettorale di Tsipras: l'illusione che fosse possibile, tanto più in un contesto così poco competitivo come quello greco, tenere insieme l'appartenenza all'unione monetaria (e le responsabilità che conseguentemente ne derivano) e politiche economiche di estrema sinistra.