Continueranno in tanti - quelli di sinistra - a dirvi che l'Articolo 18 old-style era ed è un falso problema e che i casi di reintegro nel posto di lavoro sono in realtà pochi. Ma non aggiungeranno che quel che conta era l'enorme freno alle assunzioni e agli investimenti in Italia che quella norma ha prodotto per decenni. Vi evidenzieranno, i compagni, che la questione dell'Articolo 18 ha una carica politica che prevarica molte questioni di merito, ma non ammetteranno mai che l'origine di quel portato ideologico che oggi si prova a smantellare è nato e pasciuto proprio nella sinistra italiana.

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Avremmo guadagnato venti anni, se negli Anni '90 qualcuno avesse dato retta a quel matto di Pannella, che per combattere la partitocrazia si era innamorato della rivoluzione reaganiana e thatcheriana e aveva iniziato a sfidare apertamente i sindacati ("Autobullonatevi!"). Avremmo evitato l'emersione di un odioso dualismo nel mercato del lavoro, una frattura che ha reso marcio il presente di due generazioni di lavoratori, condannando troppi figli a essere figli a vita e troppi padri a non essere nonni, ma sempre e solo padri di figli costretti a non emanciparsi mai.

Nel 2000 i Radicali proposero un referendum:

"Volete voi che sia abrogata la legge 20 maggio 1970, n. 300, recante "Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento" e successive modificazioni, limitatamente all'art. 18?".

Quel quesito, se fosse stato approvato, avrebbe contribuito a cambiare in meglio il Paese. Non perché fosse l'elisir di ogni male, ma perché avrebbe rappresentato politicamente - perché la politica conta, eccome - il superamento della sinistra ideologica come forza egemone della società italiana. Non superò il quorum, anche perché la politica mainstream di destra e di sinistra preferì cambiare strada, anziché incontrare Marco in piazza.

Vale per l'Articolo 18 quel che vale per le pensioni, che il primo governo Berlusconi provò a modernizzare nel 1994, per tempo e senza dolori. Fu la Lega Nord di Umberto Bossi a sbattere la porta in faccia al Cavaliere ancora liberale, mandandolo via da Palazzo Chigi e forse convincendolo allora a farsi co-interprete della menzogna politica italiana. La menzogna di chi racconta all'opinione pubblica quel che questa preferisce sentirsi dire, piuttosto che la verità. Ah, se destra e sinistra avessero ascoltato Pannella, sul lavoro, sul welfare, sulle pensioni, oggi non avremmo molto da invidiare alla Germania di Schroeder e della Merkel! Invece abbiamo tutti negli occhi quella folla enorme che Sergio Cofferati portò in piazza nel 2002. Le barricate contro la riforma l'Articolo 18, la demonizzazione dei riformisti, il brodo culturale in cui si formò la follia degli omicidi di D'Antona prima e di Biagi dopo, con altri loro colleghi da anni sotto scorta. Perché in Italia si può morire anche di giuslavorismo.

Comunisti che altro non siete, se aveste dato retta a Pannella! Ma la condanna dei visionari come Marco è avere ragione troppo presto, porca miseria. Prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono, poi vinci. Poi vinci, onorevole Pannella. Certo, la tua vittoria arriva quando troppi buoi sono scappati dalla stalla, in un'Italia ormai esausta. Il tuo referendum avrebbe eliminato con un tratto di penna ogni dualismo presente e futuro, mentre la riforma di oggi riguarda solo i nuovi assunti. Ma non si poteva fare di più, va dato atto a Renzi di essersi spinto fin dove poteva, in un Paese e in un Parlamento che arrivano alle riforme per necessità estrema e non per convinzione, con Forza Italia che vota furbescamente contro, con i sindacati e la sinistra che ancora cianciano di ritorno all'Ottocento e stupidaggini simili. Hai ancora ragione troppo presto, Marco.