La comunicazione presenta spesso l’Islam in base a stereotipi che non esprimono né la sua natura, né la straordinaria complessità che lo caratterizza. La costruzione di una vera relazione dialogica tra l’Islam e lo Stato italiano passa da un’autentica conoscenza – non solo da un punto di vista teologico, ma anche da quello giuridico e filosofico – dei caratteri di questa religione e dei suoi sviluppi nell’età contemporanea.

Belfakir corano

Scrivo questo articolo nel momento in cui milioni di persone sono impegnate nel pellegrinaggio alla Mecca, doveroso una volta nella vita per il musulmano che abbia la possibilità di ottemperare a questo obbligo fondamentale (uno dei cinque arkān al-Islām, pilastri su cui si fonda la fede islamica).

In questi giorni donne, uomini e bambini, dall’oriente all’occidente, più o meno ricchi – fra i pellegrini c’è chi ha impiegato un’intera vita, centesimo dopo centesimo, a raccogliere la somma necessaria per partire – più o meno istruiti, ma tutti accomunati dal fatto di essere credenti, faranno l’elemosina e compiranno buone azioni per migliorare se stessi. Tutti uguali di fronte a Dio: anche il semplice e povero abbigliamento non permette di operare distinzioni.

Già parlare con chi ha avuto la possibilità di camminare su quel suolo aiuterebbe ad andare oltre il velo delle apparenze e a conoscere l’anima del (mondo) musulmano e la storia che si porta dentro. E per correggere subito un’errata interpretazione del significato del Jihad: il Profeta Mohamed ha detto che “il miglior Jihad è un pellegrinaggio compiuto piamente”. In questa affermazione ci sarebbe già una risposta ai tanti che associano la religione di oltre un miliardo e seicento milioni di persone all’uso delle armi. Ed è proprio in questa occasione, durante la celebrazione del giorno di pellegrinaggio, che il Profeta ha enunciato uno dei fondamenti della religione islamica: “O gente, il vostro Dio è uno e il vostro padre è uno, non c’è merito per un arabo rispetto a uno straniero e nessun merito per uno straniero rispetto a un arabo; nessun merito per un rosso rispetto a un nero e nessun merito per un nero rispetto a un rosso, se non con la fede”.

È evidente però che diversi avvenimenti, in particolare negli ultimi decenni, hanno purtroppo messo in crisi questa definizione, questa certezza che continua a essere granitica nel cuore del credente musulmano. Sono stati etichettati tutti i musulmani per le azioni di pochissimi. Si è arrivati a rappresentare una sorta di scisma, una divisione fra (pochissimi) buoni e (molti) cattivi, fra (pochi) moderati e (molti) estremisti, fra uomini e donne più o meno integrati nella società a seconda del grado della loro fede (ebbene sì, si usa ancora confondere i termini “religione” e “cittadinanza”). È realmente così? Per quale motivo si usa ricorrere a questa fredda dicotomia? E soprattutto, perché si tende a mettere tutto in un calderone che non fa altro che accrescere la diffidenza? Ai musulmani viene continuamente chiesto qualcosa. Viene chiesto loro di dissociarsi – non risulta ben chiaro da cosa, visto che il dissociarsi presuppone una originaria appartenenza - di condannare, di scendere in piazza e manifestare. Viene continuamente chiesto l’evangelico “redde rationem”.

Il Profeta aveva (per l’appunto profeticamente) preannunciato che sarebbero arrivati tempi nei quali professare l’Islam sarebbe stato come tenere in mano una pietra rovente. Pare che siano arrivati, questi tempi difficili - e non sono quelli di Dickens. Sono i tempi nei quali un sedicente Stato Islamico – visto che il termine “islamico” è ontologicamente lontanissimo dalla sua realtà e dalla sua violenza – contribuisce a portare ulteriore confusione nelle menti (anche degli stessi musulmani) e ad alimentare generalizzazioni dettate dalla paura e montate dall’odio.

È stato detto in tutti i modi, in tutte le lingue, con tutte le forze che Islam non è Isis, non è violenza, non è sopraffazione religiosa, non è progetto di dominio politico universale, non è sottomissione della donna all’uomo, per utilizzare i termini tratti dal campo semantico che viene solitamente frequentato dai mezzi di comunicazione di massa. È stato dimostrato che per la cultura islamica le fonti non sono un mero e rigido codice di disposizioni, obblighi e divieti. Luoghi comuni di questo genere sono realmente offensivi nei confronti di chi ancora è fortemente legato ai propri valori e alle proprie convinzioni e si trova a non poter professare il proprio credo, senza dovere preventivamente giustificarsi per la propria fede “sospetta”.

In questo mondo ricco di istanze pluralistiche porsi e porre domande è più che lecito – l’Islam è una religione visibile nello spazio pubblico, più o meno direttamente: ma domande, non accuse. Cedere ai luoghi comuni, dare dell’Islam, dei musulmani, delle loro famiglie e della loro presenza sociale l’immagine che proprio l’Isis vorrebbe che questi avessero è offensivo nei confronti di chi segue gli insegnamenti del Profeta e cerca di emularne il nobile comportamento, nei piccoli e nei grandi gesti.

Tutti sono a conoscenza delle barbare uccisioni e dei crimini perpetrati contro “gli infedeli” – e contro i fedeli stessi - da quei sedicenti soldati che gridano “Dio è il più grande”, ma pochi sanno che uno dei versetti del Corano riporta che “l’uccisione di una persona equivale all’uccisione dell’intera umanità”, o che il Profeta ha ricordato che i non musulmani vanno trattati con rispetto e considerazione. O che il buon comportamento, in qualsiasi circostanza, non va tenuto solo nei confronti di tutte le persone, ma anche nei confronti degli animali (una donna di strada si è guadagnata il Paradiso per aver semplicemente abbeverato un cane), dell’ambiente, della natura. E stiamo ancora parlando della sola punta di un enorme iceberg.

L’Isis è lontano anni luce da questa prospettiva. Cosa porta un giovane europeo – ma anche non europeo – a comportarsi in un modo distante anni luce dagli insegnamenti coranici? Un’errata interpretazione delle fonti, portata al parossismo? Forse, ma una causa è da rinvenire anche (se non soprattutto) nella loro alienazione e nel loro nichilismo: nel pensare che la realtà non sia nulla e che loro stessi siano nulla. Cosa hanno quindi da perdere? Nulla. Anzi, il Paradiso per il proprio Jihad è una falsa promessa di redenzione dalla degradazione e dal vuoto nel quale essi vivono.

Si vuole parlare anche delle donne? Ora, per “liberarle”, si pretenderebbe di stabilire cosa debbano o non debbano indossare. Fra velo e “svelo”, burkini e altri generi di abbigliamento da mare, queste dispute finiscono per menomare la dignità delle donne musulmane, ridotte a manichini da vestire secondo le mode politiche del momento. È assai frustrante dover sostenere, ancora oggi, lo sguardo di chi, più o meno ingenuamente, ti vede alla stregua di un uccellino in gabbia che può solo cinguettare inerme sognando la libertà. Forse sarebbe più opportuno parlare di araba fenice che rinasce dalle proprie ceneri.

Perché accade anche questo: che ci si arrenda all’inevitabilità di questa logica sbagliata, salvo scoprire che la società civile sta comunque costruendo una grammatica di convivenza multiculturale o interreligiosa, pur nei vuoti evidenti lasciati dalla politica e tra gli equivoci alimentati dalla discussione pubblica.

Del resto, come opportunamente nota Jill Marshall, una delle principali voci del femminismo giuridico anglosassone, il rispetto dell’identità personale passa anche dall’idea che scegliere il proprio abbigliamento sia – in uno stato laico e democratico – un diritto fondamentale e irrinunciabile, anche (se non soprattutto, volendo tenere presente l’art. 9 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo) quando esso derivi dall’ottemperanza di precetti religiosi. E la galassia del femminismo islamico, ancora assai poco studiata in Italia, contribuisce oggi con studiose come Ziba Mir-Hosseini a mettere in profonda discussione la stereotipata equazione tra Islam e patriarcato.

Recenti episodi, quale la presenza delle delegazioni islamiche nelle chiese a seguito della tragica vicenda francese, hanno avuto una forza simbolica significativa, come del resto i continui comunicati stampa contro gli attacchi terroristici condotti in nome dello Stato Islamico. Le voci ci sono, ma vanno ascoltate.

L’approccio accademico e giuridico è un buon punto di partenza per l’avvio di un dialogo sincero, anche perché occorre capire se il “personale” - qui nello specifico l’esperienza religiosa - sia un elemento di forza o di vulnerabilità. Se lo chiede l’intellettuale turca Nilüfer Göle, ponendo l’accento in particolare sui concetti di “equal access to the public sphere”, “openness of the public sphere”, “right of contribution of groups who are segregated or in minority”. Göle richiama i tre livelli di sfera pubblica di Habermas, in particolare il primo, la cosiddetta “sfera pubblica effimera” che ritroviamo in caffè, ristoranti e strade, luoghi nei quali le generalizzazioni del contesto e l’anonimato crescente concorrono a formare l’opinione pubblica.

Forse è il momento – per dirla con Seyla Benhabib – che anche in Italia i poteri pubblici si impegnino a costruire con l’Islam, da un punto di vista istituzionale, quella relazionalità dialogica capace di comporre razionalmente le differenze che esistono nelle società multiculturali.