Né da turista, né da giornalista, né da osservatore “accademico”. Uno sguardo parziale, ma del tutto particolare e profondo sulla società americana contemporanea e le sue contraddizioni.

Ciaccio Seattle

Come pastore delle chiese valdesi e metodiste in Italia, a febbraio e marzo ho avuto l’opportunità di passare due mesi negli USA, ospite di alcune chiese protestanti liberal nella città di Seattle, Washington, nell’ambito di un progetto di formazione e amicizia. Il punto di osservazione è stato particolare, né turistico né accademico, vivendo di volta in volta con famiglie della chiesa: una visione, ad ogni modo, parziale.

La stessa città di Seattle ha una solida tradizione liberal. Questo la rende poco interessante nelle elezioni presidenziali: è in uno “stato blu”, saldamente democratico, e non c’è alcuna possibilità che diventi rossa. Basti pensare che nell’indicarmi i grattacieli della città satellite di Bellevue, vicino al quartier generale di Microsoft e alla villa di Bill e Melinda Gates, gli amici di Seattle mi dicevano: “Vedi, quella è Bellevue: i repubblicani vanno a vivere lì”, senza disprezzo né sarcasmo, con tono neutro e descrittivo. A Seattle, Sanders ha battuto nettamente Clinton, prendendo oltre il 75% dei voti nei caucus. Bernie ha riempito l’Arena (il palasport dell’area Expo 1962) e pochi giorni dopo il Safeco Fields, lo stadio del baseball. Di questa esperienza riporto qui quattro impressioni.

La struttura razzista della società gentrificata

Colpisce subito l’uso del concetto obsoleto e antiscientifico di “razza” per definire le persone e, di conseguenza, le cose ad esse collegate. Cioè, praticamente tutto. A Seattle ti dicono subito: qui la razza più rappresentata sono i bianchi, cui seguono in ordine asiatici, ispanici e neri. Statistiche, una parvenza di scientificità. Quando provi a sfidare questa struttura, ti chiedono candidamente: “E voi, in Europa, come fate?” Beh, noi abbiamo altre discriminazioni, sarà perché parliamo lingue diverse, sarà che preferiamo scambiare un olandese per un danese piuttosto che classificare tutti secondo la “razza”. Ho conosciuto l’unico deputato afroamericano dello Stato del Washington: ha scalato la società grazie al suo talento nel football. Ed era (giustamente) ossessionato da come fare in modo che altri neri potessero studiare all’università e uscire dai ghetti.

Come si formano i ghetti? Anche questo è interessante. Esiste il fenomeno, a molti noto, della gentrification, ovvero dell’imborghesimento del quartiere popolare. Funziona così. Un quartiere povero (e povero spesso significa nero) comincia ad avere attrattiva. Le case costano poco e magari il cemento non ha distrutto del tutto la zona. Una famiglia bianca vuole comprare una casa. La famiglia nera non vuole vendere, perché sta bene lì e magari ci sta da anni o addirittura da un paio di generazioni. La famiglia bianca aumenta l’offerta, perché tanto costa meno che altrove. Alla fine la famiglia nera cede: prende i soldi e va da un'altra parte. Altre famiglie bianche cominciano a pensare che in quel quartiere si potrebbe vivere bene e che le case sono abbordabili. Più famiglie bianche comprano case, il cui valore sale. In poco tempo tutto il commercio cambia nella zona e i più poveri non possono più viverci come prima: vendono le case (a bianchi) e vanno in un altro quartiere.
A Seattle è quello che è successo al quartiere di Madrona.

Dove vanno i neri? Vanno in un quartiere nero oppure in un quartiere bianco dove succede la stessa cosa, ma al contrario. Vengono i neri, il valore delle case scende e c’è la fuga prima che questo crolli. In pochi anni si hanno quartieri bianchi e quartieri neri, città bianche e città nere. Come nel caso celebre di Detroit, le città che falliscono sono spesso a maggioranza nera e il sindaco stesso è espressione del gruppo afroamericano.

Le conseguenze della struttura razzista sono devastanti. L’illusione segregazionista era ed è che ognuno stia meglio a casa sua, coi “suoi”. In realtà non esistono universi paralleli: prima o poi i gruppi separati si incrociano o si scontrano, e i bianchi (che ridicolmente vengono chiamati “caucasici” come i Ceceni o gli Azeri, per dire) tendono a “proteggersi” dai neri. Diversi pogrom nei primi 60-70 anni del secolo scorso hanno distrutto i tentativi afroamericani di emancipazione borghese. Emblematico è il caso della distruzione di Greenwood, ricco quartiere afroamericano di Tulsa, nel Mississippi nel 1921 . Seguì la decimazione da parte del FBI delle Black Panthers, colpevoli di volere applicare il secondo emendamento della Costituzione — “Essendo necessaria, alla sicurezza di uno Stato libero, una milizia ben regolamentata, non potrà essere infranto il diritto dei cittadini di detenere e portare armi” — anche ai cittadini afroamericani.

Poi la reaganiana War on Drugs che, in un sistema dove la politica decide quali reati perseguire di più e quali di meno, scelse di colpire duramente la microcriminalità presente tra le classi più povere e, dunque, tra i neri. Risultato? Gli Stati Uniti vivono nell’era della Mass Incarceration, dove un afroamericano su quattro è stato, è o sarà in prigione per un periodo della sua vita.

In quest’epoca è sorto il movimento Black Lives Matter per sensibilizzare sulla piaga dell’uso indiscriminato della deadly force da parte della polizia sui giovani afroamericani. In molti stati USA la polizia ha “licenza di uccidere” nel caso in cui l’agente abbia timore per la propria vita, senza necessità di provare un pericolo oggettivo. Ovviamente, con l’alto tasso di criminalità della popolazione afroamericana, s’innesca un perverso circolo vizioso dove un poliziotto ha mediamente più paura di un nero che di un asiatico.

Questi alcuni dei danni più evidenti del razzismo strutturale, come se i neri fossero gli unici cui il sogno americano non deve essere concesso: sarà perché sono gli unici che in America non sono voluti andare di loro spontanea volontà.

La politica delle lobby

Sorprendentemente, questo è uno degli aspetti che più ho apprezzato. Il cittadino americano è soggetto della vita politica, molto più che in Italia, e i politici sono accessibili. Ho visitato il Congresso statale a Olympia in mezzo a lobbisti ebrei e cristiani liberal. I cittadini si organizzano in gruppi di interesse — non una parola necessariamente negativa — e vanno a parlare con i loro rappresentanti politici per informare, fare pressione, iniziare un dibattito. Se penso a come in Italia ancora molti non abbiano fatto il passaggio da sudditi a cittadini e come alcuni politici si spaccino per “cittadini” come gli altri, insomma, l’esperienza americana è stata entusiasmante.

Il sistema delle lobby è una scatola vuota. Ci sono lobby che perseguono il bene comune e lobby che invece cercano di guadagnare a discapito della società. Il caso più sconvolgente — per me che lo ignoravo — è quello delle lobby delle industrie legate al sistema carcerario. A parte le prigioni federali che sono di proprietà pubblica, molte carceri sono private in convenzione pubblica, un po’ come il nostro sistema ospedaliero. È interesse di queste industrie che i carcerati aumentino: dunque le loro lobby faranno pressione contro ogni proposta di legge in favore di pene alternative o che puntino al reinserimento sociale del condannato.

Come fare per fermare questo tipo di pressioni? Con altre pressioni. Il gruppo di lobbisti che ho conosciuto a Olympia organizzava manifestazioni di informazione sul sistema carcerario e sulla pericolosa ingerenza di chi vuole lucrarci, rendendo pubblici i nomi delle industrie implicate nel business dei penitenziari. Insomma, non è tutto rose e fiori, ma c’è un invito all’attivismo di ogni cittadino assolutamente invidiabile, dalla mia prospettiva. Tutti sono responsabili e, se non vuoi prenderti le tue responsabilità, beh, potresti pagarne le conseguenze o renderti complice degli ingiusti.

La marijuana: libertà ed educazione

Colorado e Washington sono i due stati USA che hanno legalizzato la cannabis anche per scopo ricreativo. Lasciando perdere l’analisi economica, mi interessava vedere l’impatto sociale. A Seattle ci sono diversi pot shop, il più interessante dei quali sembra essere Uncle Ike, un negozio che aspira a fare per la marijuana quello che Starbucks ha fatto per il caffè: creare un brand di successo. D’altra parte, Starbucks è un local, è uno di Seattle, come direbbero da quelle parti. Uncle Ike non sembra un negozio “alternativo”, ma assomiglia sostanzialmente a una birreria. L’entrata è rigorosamente vietata ai minori di 21 anni e ai maggiori che non mostrano un documento d’identità conosciuto — la simpatica carta d’identità italiana non mi è bastata e il passaporto col visto era al sicuro a casa. Il locale è in convenzione con Lyft, un sistema di noleggio con conducente tipo Uber, per portare i clienti a casa.

C’è anche un pizzico d’ipocrisia per salvaguardare la forma. Nessuna carta di credito ha intenzione di essere in convenzione con il tipo di commercio “controverso” di Uncle Ike. Però si possono ritirare i soldi cash dalla macchinetta ATM in negozio. Mi hanno detto che le carte di credito perderebbero la licenza, visto che hanno sede in stati dove l’acquisto di marijuana è illegale. Sui mezzi pubblici di Seattle ci sono pubblicità educative sulla marijuana. Ne cito due. Nella prima si avvertono gli studenti che l’abuso di marijuana può avere conseguenze negative sul rendimento a scuola e all’università. La seconda era questa: “Mia figlia non fumerebbe mai marijuana” “Sei sicuro che non assaggerebbe un brownie?” Parla coi tuoi figli della marijuana!”

Queste pubblicità mi hanno ricordato il principio protestante della libertà legata all’educazione. Lutero mise la Bibbia in mano a tutti, ma insegnò a tutti a leggerla. Cinquecento anni dopo, la legalizzazione di una sostanza vietata per generazioni è accompagnata dall’informazione e dall’invito a saperne di più, a parlarne, con effetti collaterali interessanti. La paura dell’uso che i tuoi figli possano fare di sostanze quali alcool e marijuana si sconfigge instaurando una relazione dialogante tra genitori e figli, non mantenendo il tabù.

La povertà di una nazione

Tra le varie esperienze di due mesi a Seattle, ho lavorato come volontario a un banco alimentare organizzato delle chiese. Il 7% della popolazione della città è homeless, il 10% dei bambini scolarizzati non torna a casa dopo la scuola, ma a un rifugio, o dorme in automobile. Non si può capire il fenomeno Trump e — mutatis mutandis — Sanders, senza avere presente la realtà impressionante della povertà negli USA.

Di solito traduciamo homeless con “barbone” e usiamo il calco “senzatetto” per essere politicamente corretti. La traduzione più giusta del termine sarebbe “povero”. La maggior parte degli homeless che ho incontrato non erano infatti dipendenti da alcool e droga né alle prese con un malessere mentale né in fuga dalle famiglie o in balia del racket della prostituzione — come avviene invece in Italia, nell’ultimo caso si tratta di persone omosessuali o transessuali cacciate dalla propria famiglia “naturale”. Si trattava principalmente di famiglie decadute della middle class.

La crisi della Lehman Brothers e dei mutui subprime ha fatto perdere la casa a milioni di americani. Ho conosciuto un’avvocata che ha rischiato seriamente di essere buttata in mezzo alla strada e che deve sub-affittare su Airbnb pezzi della sua casa, per non perderla. A 60 anni. Negli USA il welfare è affidato all’iniziativa privata. La filantropia è incentivata fiscalmente. Le chiese hanno un ruolo cruciale nel lenire le sofferenze dei poveri, e sono veramente unite per fronteggiare l’ondata di homeless. Con questa situazione non è sorprendente la difficoltà dei candidati associabili all’establishment.