Ieri ha destato scalpore la notizia, apparsa prima sul Financial Times e poi diffusa da molti media italiani, secondo cui la nostra Corte dei Conti starebbe meditando sulla possibilità di citare in giudizio le principali agenzie di rating, colpevoli, a suo giudizio, di aver declassato il debito sovrano dell'Italia nel 2011 senza tenere conto adeguatamente del patrimonio artistico e culturale del bel paese. Che l'Italia possieda un enorme patrimonio artistico e culturale, di gran lunga superiore a quello degli altri paesi, è fuori discussione. Ai 43 siti UNESCO dell'Italia (numero superiore anche a quello della Cina e degli Stati Uniti) si aggiungono oltre 3400 musei e circa 2100 tra parchi e
aree archeologiche. Tuttavia, la pretesa di stabilire una correlazione diretta tra la dotazione di arte
e cultura e il merito di credito dello Stato italiano, bocciare su questa base la valutazione delle agenzie di rating e immaginare di poter chiedere un risarcimento miliardario, lascia un po' perplessi.

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In primo luogo, perché la valutazione dei rating sovrani viene svolta dalle agenzie internazionali gratuitamente, come libera diffusione di informazioni economiche a carattere giornalistico. Nessuno è tenuto per legge a cosiderare queste valutazioni, che si configurano come un servizio offerto gratuitamente sul mercato per ragioni esclusivamente promozionali. Di questo tema si è occupato Piercamillo Falasca ieri.

In secondo luogo, perché, se si prova un attimo a cambiare la prospettiva del problema, ci si rende conto che il rilievo della Corte si tramuta facilmente in un atto di accusa nei confronti proprio dell'Italia. Infatti, se è vero che l'Italia possiede il più vasto patrimonio artistico e culturale del mondo, è anche vero che la gestione di questi gioielli artistici e culturali è a dir poco sconsiderata rispetto alle potenzialità.

Per avere un'idea della situazione diamo un'occhiata a qualche dato del settore. Proviamo, per esempio, a rapportare alla dimensione quantitativa del patrimonio il ritorno economico che il nostro paese riesce effettivamente a trarne. Ebbene, a fronte di una dotazione artistica e culturale pari ad almeno il doppio di quella posseduta da paesi come Francia, Regno Unito e Stati Uniti, il valore del merchandising artistico italiano è 1/3 di quello francese, 1/4 di quello inglese e appena 1/8 di quello americano. Un altro dato significativo è che gli incassi di tutti i musei statali italiani ammontano complessivamente a meno del 40 per cento di quelli conseguiti dal solo Metropolitan Museum. Oppure che il Louvre, da solo, riesce a fare gli incassi di tutti i nostri musei messi insieme.

Anche la Spagna, che ha un numero di siti UNESCO comparabile a quello italiano e comunque inferiore, registra performance nettamente migliori rispetto alle nostre. Anche qua i dati parlano chiaro. Nel corso del decennio precedente la crisi, e precedente l'emissione del "rating incriminato", la quota di mercato turistico internazionale dell'Italia è passata da quasi il 7 percento a poco più del 4 per cento (dati Bankitalia), mentre quella della Spagna è rimasta stabilmente attestata sul 6 per cento. Un recente report di Bankitalia conclude che da circa 15 anni la spesa dei turisti stranieri in Italia è stagnante e che l'interscambio con l'estero in questo settore ha contribuito in misura negativa alla crescita del PIL. Ed è proprio l'OCSE a rilevare che la bassa valenza strategica del "Marchio Italia" deriva proprio dalla scarsa valorizzazione del patrimonio culturale.

Alla luce di queste considerazioni a me non appare più molto chiaro se le agenzie hanno sottovalutato o sopravvalutato il rating sovrano dell'Italia nel 2011. Il nostro paese ha grandi potenzialità, e la concreta valorizzazione del nostro patrimonio artistico e culturale dovrebbe essere un asse portante della strategia di rilancio della crescita e dell'occupazione. È su questo che dobbiamo concentrare i nostri sforzi. Altrimenti rischiamo di recitare la parte del nobile decaduto, che dopo essersi indebitato fino al collo giocando al casinò pretende che gli si faccia ancora credito sulla base dei suoi titoli nobiliari.