don sturzo

Bisogna sgombrare il campo da due presunte analogie che, invece, non reggono: è vero che in Germania i socialdemocratici, pur perdenti, hanno aderito - per vocazione d’ordine - ad una Grande Coalizione ma lo hanno fatto con i democristiani, con gli eredi di Adenauer e Erhard, non con i populisti e gli xenofobi di Alternative für Deutschland.

Ed è vero ancora che, in Italia, il PD ha già in passato aderito a governi allargati, tecnici o di scopo - penso, ad esempio, all’esperienza fatta di luci ed ombre del governo Letta - ma tale esperienza era comunque inserita all’interno delle dinamiche di auto riconoscimento delle grandi famiglie politiche europee e – al di là del valore o del disvalore delle persone coinvolte – riguardava soggettività politiche culturalmente agganciate al quadro assiologico costituzionale e ai principi dello Stato di Diritto.

Veniamo ora, invece, ad un analogia storica che mi appare congrua: anche il partito popolare di Sturzo, all’indomani della Marcia su Roma, dopo che il direttorio del gruppo parlamentare ebbe votato la partecipazione del partito al primo ministero di Mussolini, si trovò ad affrontare un duro dibattito interno – che coinvolse tanto gli organi centrali che periferici del partito – riguardo la possibilità o meno di continuare una “collaborazione governativa” da molti rappresentata, anche sulla stampa, come necessaria e funzionale agli interessi del Paese.

In fondo, in quella temperie straordinaria, scossa da disordini ed incertezza d’autorità, i popolari si trovarono di fronte al dilemma della (im)possibilità di normalizzare il fascismo dall’interno. Il pericolo sotteso alla collaborazione, ovviamente, era la sconfitta culturale nei confronti degli avversari politici, l’alienazione delle simpatie dei propri militanti, la legittimazione istituzionale di un movimento contrario, diremmo oggi, ai valori della Società Aperta.

Come è noto fu il quarto congresso del PPI, svoltosi a Torino dal 12 al 14 aprile del 1923, a chiarire definitivamente la posizione intransigente dei popolari, ad allontanare i propri uomini dal governo Mussolini, dopo solo sei mesi. La necessità di svincolare il partito dalle secche della collaborazione “innaturale” fu una delle preoccupazioni costanti di Luigi Sturzo: “Errore è il credere – scrisse il fondatore del PPI – che il partito esaurisca le sue forze nell’attività parlamentare e governativa. Quell’attività è una parte, la più visibile, la più rilevante, la più difficile e scabrosa, la più insidiosa, ma non è l’unica, e in determinate circostanza non è neppure la prevalente”.

Per Sturzo, dunque, prima ed oltre le responsabilità, gli oneri e gli onori di governo sussisteva la mèta della propria identità programmatica, il ruolo sociale - riconosciuto dai propri iscritti e militanti - di ferma opposizione ad ogni cedimento di fronte all’autoritarismo padronale, al pressapochismo plebiscitario.

E ancora, sul Domani d’Italia, il migliore rappresentante della sinistra popolare, il meneghino Francesco Luigi Ferrari, così delineava, sempre nel 1923, il bivio tra sostegno governativo e rivendicazione della propria personalità politica a rischio di fagocitazione: “O si corre lungo la via polverosa alla stessa velocità del cocchio del vincitore o si volta per un’altra strada; perché lungo la via del dominante non vi è posto per altri cocchi ed egli non consente che chi lo vuole accompagnare si attardi”.

Oggi, ovviamente, non si tratta per i sinceri democratici di districare – come nel 1923 – il dilemma di Torino “O con il fascismo o con la Democrazia Cristiana“ ma, fatte le debite proporzioni, si tratta comunque di dibattere sulla esistenza futura del Partito Democratico come partito politico unitario

Se, infatti, prevarrà l’istinto di sciogliersi all’interno di un flusso escatologico che appare irresistibile e che si impone come “sostituto” del pensiero popolare, democratico e laburista, verrà meno la ragione stessa della nascita e della vita del PD; si annullerebbe la propria ragione storica nel disconoscimento della vocazione maggioritaria ed alternativa alle forze antisistema di matrice demagogica.

A nulla varrebbe, in tale contesto, l’apparente sacrificio di “responsabilità” per custodire singole posizioni politiche o qualche conquista riformista destinate a cadere, l’una dopo l’altra, nella vita quotidiana di un governo monopolizzato dagli “altri”. Come disse bene Ferrari in vista del congresso di Torino, riferendosi al PPI collaborazionista: “Acconciandosi a servire si rinuncerebbe a vivere. E di lui [il partito] non più l’uomo politico ma lo storico dovrebbe occuparsi”.

Allora come oggi occorre vigilare per non subire, in omaggio alle sirene del sacrificio per il Paese, una revisione radicale delle proprie linee programmatiche ed ideali. È ovvio che questo non è il problema dei 5 Stelle che, fedeli alla propria ideologia di potere, nell’ambito della narrazione “né di destra né di sinistra”, sono riusciti in pochi giorni – e dall’alto, senza partecipazione popolare – a modificare radicalmente obiettivi strategici e programmi identitari, passando in maniera disinvolta dall’anti americanismo alla fedeltà alla Nato, dalle posizioni pro Putin ed anti Euro alle professioni di europeismo.

Per il partito democratico, invece, non si tratta solo di tattica parlamentare, si tratta di rivendicare la propria storia “pesante”, l’ideologia di un partito riformista – fondato sui valori di Giustizia e Libertà – per il quale dovrebbe valere l’impostazione che lo stesso Sturzo enunciò al consiglio nazionale del partito il 07/02/1923, allorché pose in questi termini i limiti della “collaborazione”: “All’impiedi sì, in ginocchio no”.

Certo, dopo il congresso “antifascista” di Torino, il PPI perse molto in forza numerica a causa della fuoriuscita di quei rappresentanti (clerico fascisti vennero chiamati allora) che furono incapaci di esprimere i propri programmi, le proprie alternative, una nuova ed autonoma visione per il futuro del Paese e che si posero al seguito del carro del vincitore. Certo, lo stesso rischio sussiste anche oggi; c’è il pericolo, in sintesi, che molti non si rendano conto del progressivo disfacimento dell’ordinamento democratico che si accompagna a posizioni neo collettiviste ed accentratrici che disconoscono il ruolo dei corpi intermedi, dei sindacati, dei partiti, del libero moto sociale, dei vantaggi del libero commercio.

Da quella vicenda – a fronte della ricordata emorragia di “responsabili” attratti dal fascino dei vincitori – il PPI ne acquistò senza dubbio in energia morale, nel risveglio di forze sopite, in dedizione per una più ferma precisazione identitaria che accompagnò Sturzo fino all’esilio e, soprattutto, nella consapevolezza del proprio ruolo epocale di freno all’anomia apparentemente vincente e che non cessò di germinare neanche dopo la fascistizzazione dello Stato e l’abolizione del pluralismo partitico.