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Era tra le priorità programmatiche della Commissione Juncker, uno dei passaggi più rilevanti in occasione del discorso sullo stato dell’Unione nel 2017. Ora, dopo circa sette mesi e l’ok definitivo del Parlamento europeo, la riforma del finanziamento pubblico ai partiti europei punta ad essere esecutiva per le elezioni europee della prossima primavera.

Già nel 2014 fu fatto un importante passo in avanti, disciplinando lo status dei partiti europei e legando il loro riconoscimento a requisiti specifici e all’iscrizione in un registro tenuto da una Autorità istituita ad hoc. Tre anni dopo, questo nuovo intervento inserisce legami e vincoli più stringenti, evidentemente alle soglie della nona elezione per il Parlamento Europeo che si terrà dal 23 al 26 maggio 2019. La Commissione infatti ha tenuto ben presente lo spettro della bassa partecipazione alle urne (il 42,6% nel 2014) e ha promosso una nuova iniziativa capace di agganciare più saldamente partiti nazionali e partiti europei. C’è da dire che non è stata granché frizzante l’attività consultiva dei Parlamenti nazionali: solo il Senato italiano e il Parlamento spagnolo e portoghese hanno mandato i loro pareri al provvedimento.

 

Cosa prevede la riforma

Aumenta del 5% il contributo del bilancio europeo agli europartiti: sarà coperto infatti il 90 e non l’85% delle spese. Ritoccato anche il meccanismo interno di distribuzione dei fondi: scende dal 15 al 10% la quota assegnata in parti uguali dal Parlamento Europeo ai partiti europei e sale dall’85 al 90% il finanziamento in base al numero degli europarlamentari di ciascun europartito. Era inizialmente più restrittiva la proposta della Commissione che prevedeva lo schema 5-95. La tabella sottostante mostra come cambierebbero le sovvenzioni.

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Non è stato però tanto il quanto, ma il come l’oggetto di discussione e di intervento della riforma. Su 750 membri provenienti da 28 Paesi, solo Castaldo del M5S ha presentato infatti emendamenti soppressivi e radicalmente contrari al finanziamento mentre le modifiche sono andate in direzione di una maggior trasparenza contro frodi e abusi.

 

I soldi agli euroscettici

Del resto, negli ultimi anni anche gli euroscettici hanno beneficiato dell’attuale sistema di finanziamento. Lo ha evidenziato, in un argomentato paper per un’iniziativa OCSE, Wouter Wolfs, ricercatore al Public Governance Institute dell’Università di Lovanio. Nel grafico si può vedere come e quanto siano cresciute la percentuale di soldi incassati dai movimenti antieuropeisti, passata dal 6 al 30% in 12 anni, e la cifra totale del finanziamento del PE ai partiti, arrivato a poco più di 30 milioni dai circa 4 milioni nel 2004.

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Lo stesso Wolfs, esperto del tema, scrive apertamente che dietro questa non-opposizione al sistema di finanziamento europeo si cela in realtà una debolezza finanziaria interna dei rispettivi partiti nazionali. Le risorse europee insomma aiutano (anche se non dovrebbero secondo la legge) in occasione di campagne interne di particolare importanza. Così, per esempio, risulta che il gruppo "Europa della Libertà e della Democrazia Diretta" (lo stesso del M5S) abbia finanziato Ukip nella campagna del 2015 e nel referendum sulla Brexit del 2016. Casi simili sono accaduti in Danimarca e Olanda.

 

Il buco del sistema, la debolezza della riforma

La riforma sana finalmente una stranezza: impedisce ai singoli parlamentari europei di creare partiti europei. Solo i singoli partiti nazionali potranno farlo. Fin qui infatti diversi parlamentari appartenenti allo stesso gruppo hanno dato vita a partiti europei diversi. Gli europarlamentari francesi del Fronte Nazionale, per esempio, hanno sostenuto infatti fino a 3 partiti diversi. È anche così che si può spiegare la crescita dei partiti euroscettici (13) rispetto ai 6 pro-Europa, più solidi e organizzativamente e culturalmente radicati.

Questo passo in avanti verso una maggiore chiarezza e corrispondenza dei fondi non cambia però l’abito mentale di Bruxelles che ha già bocciato una seppur parziale apertura a liste transnazionali. Il filtro dei partiti nazionali conferma la difficoltà di costruire veri e autentici partiti transnazionali europei sulla base di semplici singoli iscritti.

Se insomma, usando le parole di Juncker, la Commissione ha voluto con questo provvedimento prevenire il rischio di “elezioni europee come somma di elezioni nazionali”, il risultato è quello di proporre partiti europei come somma di partiti nazionali. Nel frattempo a uscire rafforzato è il paradigma del finanziamento pubblico in un contesto in cui la democrazia - se non europea, almeno extraitaliana - la fanno i partiti. Quelli veri.

@micdv