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"Sono troppo emotivamente preso in queste ore per commentare in modo sereno il voto ungherese" mi scrive da Budapest uno storico italiano cui avevo chiesto un’opinione sul successo di Viktor Orbán alle elezioni politiche di domenica scorsa e sulle prospettive future della democrazia magiara. “Stamattina [martedì N.d.R] – prosegue l’accademico – hanno annunciato l'immediata chiusura del più prestigioso e antico giornale di opposizione, il Magyar Nemzet, e di una radio privata sempre di opposizione”.

Il clima, come conferma anche Federigo Argentieri, Direttore del Guarini Institute, tra i più autorevoli esperti di politica e storia ungherese in Italia, sembra essere decisamente cambiato rispetto all’Ungheria di soli dieci anni fa. “Forse non si arriverà ad una ‘Lukashenkanizzazione’ dell’Ungheria, perché questo sarebbe controproducente per lo stesso Orbán e perché probabilmente il suo partito Fidesz glielo impedirebbe, ma in via del tutto teorica con la maggioranza qualificata dei 2/3 dei seggi ottenuti Orbán potrebbe cambiare la costituzione e fare il Primo Ministro a vita”. Quella di Argentieri è ovviamente un’iperbole – la storia e le vicende politiche dell’Ungheria non sono paragonabili a quella della Bielorussia, ex repubblica sovietica guidata con pugno di ferro dal batka Alyaksandr Lukashenka da più di vent’anni – ma un iperbole dietro la quale si celano inquietudini e preoccupazioni comuni a molti osservatori.

Per la maggior parte dei lettori italiani a digiuno di politica ungherese, è opportuno ricordare che l’Ungheria è una repubblica parlamentare, in cui il Presidente, eletto ogni 5 anni dall’Assemblea Nazionale (composta dai 199 deputati scaturiti dal voto delle politiche), ha un ruolo poco più che cerimoniale. Il vero potere è nelle mani del Primo Ministro, in questo caso Viktor Orbán, riconfermato per la terza volta in tale incarico domenica 8 aprile 2018 con il 48,9% dei voti, pari a 2,6 milioni di elettori. Fatta questa debita premessa di carattere politico-istituzionale, occupiamoci del voto di domenica, provando a collocarlo in una prospettiva storica.

Come ha fatto giustamente notare Stefano Bottoni, ricercatore presso l’Istituto di storia dell’Accademia ungherese delle scienze a Budapest, in un’intervista rilasciata alla Radiotelevisione Svizzera lunedì scorso, il voto di domenica sancisce la fine della transizione post-comunista. La transizione non ha prodotto in Ungheria un sistema liberal democratico di tipo occidentale ma qualcosa di sostanzialmente diverso. Pur nella consapevolezza che l’analisi di questa ‘democrazia illiberale’ – appellativo coniato dallo stesso Orbán per definire un regime politico nel quale i valori conservatori della patria, dell’identità culturale prevalgono sulla libertà individuali – potrà essere effettuata solo dagli storici tra venti o trent’anni, è utile interrogarsi sulle ragioni per cui Budapest, dopo l’ingresso nella NATO (1999) e nella UE (2004) abbia deciso, a partire dal 2010-2014, con il secondo mandato di Viktor Orbán, di intraprendere un sentiero che sconfessa le scelte atlantiste ed europeiste del primo ventennio post-comunista.

Argentieri prova ad elencare alcuni fattori che sono alla base dell’involuzione democratica magiara: “la tradizione post-comunista è molto forte. Il retaggio del comunismo è ingombrante. In Ungheria è mancato un Piano Marshall, per esempio. Ma il vero problema è il debole senso democratico del Paese. In fondo se analizziamo la storia ci accorgiamo che una democrazia sovrana in Ungheria si è avuta per la prima volta solo a partire dal 1990”. La vittoria di Fidesz, sicuramente prevista, seppure non in queste proporzioni – quasi un ungherese su due ha votato per il partito di Orbán – è stata interpretata da alcuni analisti, più che come un trionfo del Primo Ministro, come un’autentica debacle di un’opposizione divisa, senza idee, senza leader, e incapace di intercettare il ben che minimo consenso nelle aree rurali del Paese. 

Secondo lo studioso il voto di domenica è “sia una vittoria di Orbán, sia una sconfitta dell’opposizione, il che rende la situazione ancora più pesante. Venerdì scorso ho assistito al comizio conclusivo dell’opposizione a Budapest. Nonostante la bella giornata si respirava un clima di rassegnazione. Le parole pronunciate dal palco dal leader socialista, anzi ex leader visto che si è poi dimesso, Gergely Karácsony, mi sono sembrate vuote e prive di qualsiasi appeal per l’elettorato. Ci saranno state al massimo mille persone a questo comizio che è stato davvero l’apoteosi della depressione e della scarsa convinzione”.

Ciononostante la capitale ungherese ha rappresentato l’unica isola felice per gli oppositori del Premier che hanno conquistato 12 seggi uninominali su 18. Un risultato, in qualche modo annunciato, ma che non cambia di una virgola gli equilibri politici, semmai conferma la natura cosmopolita e liberale di Budapest rispetto al resto del Paese. Budapest – spiega Argentieri – è sempre stata una città ribelle, allergica a ogni forma di conservatorismo. “Nel resto del Paese l’opposizione è stata seppellita. Orbán, che è un politico astuto, ha snobbato la capitale e ha concentrato i suoi sforzi nei villaggi e nelle campagne dove ha fatto il pieno di voti”.

Anche lo storico romano concorda con la lettura offerta a RSI dal collega Bottoni riguardo all’ampio uso di risorse amministrative impiegate dal governo in carica per orientare le preferenze degli elettori. “Il sistema clientelare negli anni di Orbán si è molto sviluppato e anche potere giudiziario e stampa sono stati messi in qualche modo sotto controllo. Siamo in una situazione che definirei di pre-autoritarismo”.

Ma ciò che è risultato determinante per la vittoria di Fidesz è stata la retorica anti-immigrati. Nulla di nuovo verrebbe da dire considerando il peso che tale fattore ha avuto anche alle elezioni parlamentari italiane del 4 marzo. In realtà, sottolinea Argentieri, i temi dell’immigrazione e dell’Islam, presenti nelle agende di tutti i partiti populisti ed euroscettici, sono stati abilmente ricontestualizzati alla luce della storia ungherese.
“Il partito di Orbán ha legato il tema dell’immigrazione a quella della presunta perdita di un’identità nazionale riacquistata con grande fatica dopo la stagione comunista. Questo è stato sicuramente premiante presso un certo tipo di elettorato”.

Gli attacchi a Soros, alla sua università e indirettamente, con toni sfumati per non apparire palesemente antisemita, alla lobby ebraica hanno contribuito al rafforzamento di questo discorso nazionalista. È singolare, ma neppure tanto considerando l’ignoranza sui temi economici dell’elettorato di riferimento di Fidesz, che il partito del Primo Ministro non abbia rivendicato in alcun modo i risultati economici conseguiti sotto la sua guida. Due sono le chiavi di lettura che si possono dare a questa deliberata omissione. Il primo è che è indubbiamente più facile prendere voti parlando alla pancia del paese creando la psicosi dell’invasione dei profughi siriani, piuttosto che rivendicare successi economici inferiori rispetto a quelli degli altri tre Paesi di Visegrád (Slovacchia, Repubblica Ceca e Polonia). La seconda ragione, peraltro legata alla prima, è che i discreti risultati in ambito economico quali la creazione di nuovi posti di lavoro – come spiegava Zoltán Pogátsa, direttore dell’Istituto di Economia dell’Università dell’Ungheria Occidentale in un articolo dello scorso novembre – sono legati a progetti di investimento finanziati dalla UE. È del tutto evidente che dover ammettere davanti agli elettori che i pur modesti tassi di sviluppo dipendono da fondi UE, non è funzionale alla retorica politica di un partito fortemente critico nei confronti dell’Unione.

Nonostante le congratulazioni del Presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker, c’è da scommettere che nei prossimi mesi il braccio di ferro tra Orbán, leader non solo dell’Ungheria ma, a questo punto, anche del gruppo di Visegrád, e la UE si intensificherà con conseguenze potenzialmente pericolose. Argentieri sostiene che il peso dei Paesi di Visegrád (Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca e Polonia) è destinato a crescere all’interno della UE e che il loro recente riallineamento con Mosca, ad eccezione della Polonia di Jarosław Kaczyński, è un potenziale fattore di destabilizzazione.

Allo stato attuale è troppo presto per affermare che l’Ungheria di Orbán agirà da cavallo di Troia di Mosca all’interno della UE per spaccare l’unità politica ed economica del Vecchio Continente. Quel che è certo è che il suo modello di democrazia illiberale piace molto anche ai sovranisti italiani.