Il successo di Renzi ha dimostrato che sfidare i tabù non costa, ma paga. Dopo averlo fatto, contro la CGIL, sui temi economico-sociali, ora il leader del PD dovrebbero "cambiare verso" anche sulla giustizia. Partendo dal tabù per eccellenza, l'obbligatorietà dell'azione penale.

Quando si supera la soglia del 40% si acquista una possibilità di manovra fino al giorno prima impensabile e non si corre il rischio di essere messi in discussione, anche a fronte di decisioni inizialmente impopolari, quanto meno in apparenza. Non è un lusso che ci si può concedere a lungo perché il consenso va e viene, specie in un quadro politico poco consolidato come quello nostrano.

Sarebbe, pertanto, auspicabile che Matteo Renzi approfittasse, nel poco tempo a disposizione, dell'occasione propizia data dal trionfo elettorale per mettere mano, da riformista, all'agenda giustizia; tema sinora rimasto sotto traccia perché considerato, specie a sinistra, elettoralmente pericoloso. Il venir meno dell'ossessione Berlusconi rende, inoltre, possibile ritornare a ragionare senza pregiudizi, sulla base dei principi generali e non per appartenenza o tifoseria; il che semplifica non poco il compito.

A questo si aggiunga un ulteriore particolare: una delle cifre del percorso politico di Renzi è stata l'irriverenza nei riguardi dei riti della "politica politicata" che si è tradotta in una costante sfida alle parole d'ordine ed ai tabù consolidati, specie a sinistra. Il diluvio di voti ha dimostrato che erano tabù per l'apparato più che per l'elettorato e che gli elettori sono molto meno ideologici dei vecchi dirigenti. Seppur in ritardo, gli antichi avversari di Renzi come Fassina gliene rendono oggi merito.

Si deve, infatti, ricordare che, affrontando il tema del lavoro, Matteo Renzi ha saputo sfidare i veti della CGIL, ma ciò non gli è costato la perdita del cosiddetto "elettorato tradizionale" che, al contrario, lo ha votato in massa. Nel tentativo di riformare la legge elettorale, poi, il coinvolgimento del nemico Berlusconi ha suscitato le ire di parrucconi e benpensanti ma, ancora una volta, nessuna negativa ripercussione elettorale.

Nella materia della giustizia penale, Renzi è stato sino ad ora timido e prudente. Forse questo potrebbe essere il momento di affrontare ed osare. Per osare si intende, ancora una volta, sfidare quel pregiudizio della sinistra degli ultimi vent'anni che identificava chiunque si azzardasse ad indicare le contraddizioni del sistema penale come fiancheggiatore di Silvio Berlusconi.

È una sfida possibile perché non comporta l'oblio degli errori e degli orrori della destra che, negli ultimi vent'anni, ha declinato il tema giustizia con approccio da tifoseria e con oscillazioni di volta in volta securitarie o lassiste, a seconda dalle contingenze elettorali e dalle convenienze del momento. Cambiare verso vuol dire, allora, provare a leggere la realtà con il coraggio della verità, senza farsi paralizzare dai conflitti d'interesse o dai veti corporativi, ascoltando tutti ma non lasciandosi intimidire da nessuno.

Significa, dunque, scegliere di sacrificare gli interessi consolidati a vantaggio di quelli diffusi, sfruttando il momento di crisi dei circuiti tradizionali della rappresentanza che sta investendo non solo il sistema dei partiti bensì l'insieme delle classi dirigenti. Il conflitto tra i vertici della Procura di Milano è la spia che, anche in quel mondo, sinora rappresentato dal sistema mediatico come un monolite, esistono divergenze sottotraccia destinate a esplodere e moltiplicarsi.

Si può minimizzare il segnale o ridurlo a mero conflitto caratteriale tra il capo dell'Ufficio e il suo vice ma, alla base del dissidio, resta un ineludibile nodo tutto politico: l'esercizio dell'azione penale. Al dato costituzionale, per cui l'azione penale è obbligatoria, si sovrappone infatti il dato reale per cui le notizie di reato che giungono negli Uffici non possono – strutturalmente – ricevere tutte un pari trattamento.

Per far comprendere la dimensione del fenomeno è sufficiente ricordare i numeri del Tribunale di Torino, unanimemente riconosciuto come modello di efficienza, che iscrive ogni anno oltre trentamila notizie di reato ma riesce a celebrare soltanto ottomila processi. È evidente che numeri di questo genere non sono arginabili con piccoli interventi deflattivi. Nessuno vuole negare la portata dei recenti interventi come l'estensione della messa alla prova, già sperimentata nel rito minorile, ai processi dei maggiorenni e neppure quelli volti a depenalizzare, a sospendere il procedimento in caso di irreperibilità dell'imputato e ad estendere le forme alternative al carcere nella fase della espiazione della pena.

Numeri di questo genere, tuttavia, dimostrano che la patologia del sistema italiano è fuori controllo e impongono di affrontare, in modo serio e onesto, il tema. Il principio costituzionale dell'obbligatorietà dell'azione penale in capo al pubblico ministero è stato sino ad oggi uno dei tanti argomenti tabù del dibattito sulla giustizia penale.

Secondo l'opinione più diffusa, l'art.112 della Costituzione rappresenterebbe un corollario del principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge perché impone al magistrato requirente di esaminare tutte le notizie di reato che pervengono sul suo tavolo senza poter operare alcun filtro preventivo. Nella vita quotidiana, l'obbligatorietà si traduce però in una mera finzione: se è impossibile prendere in esame tutti i fascicoli, appare evidente che, nella scelta di quali notizie perseguire e quali destinare alla prescrizione, si cela una decisione discrezionale che confina con l'arbitrio e contraddice il proclamato principio di eguaglianza.

Senza contare che la prescrizione è una forma mascherata, oltre che iniqua e classista, di amnistia, perché statisticamente porta a perseguire di meno i reati dei colletti bianchi rispetto a quelli, più agevoli da istruire, della piccola criminalità di strada.

Un leader della sinistra non può essere insensibile al problema e non può non accorgersi dei connotati di classe e di censo che governano, nei fatti, la quotidianità della vita dei tribunali. Quando un principio, anche nobile, diviene finzione, è obbligatorio aprire una riflessione. Accontentarsi della contemplazione di principi e valori era la cifra di quella sinistra conservatrice che organizzava le manifestazioni contro la povertà.

La novità Matteo Renzi, pur con tutti i limiti e gli interrogativi, ha impresso un cambiamento di velocità nell'azione politica ed anche un cambio del paradigma culturale che ha obbligato la sinistra a rivedere le stanche abitudini per rivolgersi, per la prima volta, all'universo del corpo sociale. Con un successo elettorale così largo, Renzi può oggi permettersi di affrontare le resistenze, anche quelle corporative, con un piglio simile a quello dimostrato su altri temi.

La percezione del collasso del sistema giustizia è più diffusa di quanto si possa immaginare, il che porta a ritenere che, anche in termini di consenso, una scelta di coraggio possa risultare, nel tempo, quella vincente.

@claudbragaglia