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Come è ormai noto i referendum lombardo-veneti non chiedevano nulla di eversivo, né di secessionistico. Erano una sorta di mandato a negoziare con Roma il trasferimento di una serie di competenze legislative concorrenti (e quindi inevitabilmente “contese”) tra Stato e Regioni, di cui la stessa Costituzione prevede, a determinate condizioni, la possibile assegnazione alle Regioni.

In senso proprio, non erano neppure referendum federalisti, perché non proponevano un diverso criterio di riparto del potere impositivo, in modo da legare in modo leggibile e politicamente impegnativo, la responsabilità fiscale e quella di spesa. In base ai referendum votati ieri, Lombardia e Veneto possono semplicemente chiedere a Roma di controllare in sede locale una quota della spesa pubblica – anche se finanziata da tributi nazionali – di cui lombardi e veneti oggi sono percettori.

Come è altrettanto noto, i referendum sono diventati il pentolone in cui chiunque – qualunque partito e qualunque elettore – ha potuto buttare le proprie insoddisfazioni e le proprie pretese, fino a farne un’unica e immangiabile sbobba, consacrata però dal voto democratico. I promotori hanno rivenduto i referendum come mezzo per rivendicare il controllo del residuo fiscale (la differenza tra il gettito prodotto e la spesa pubblica percepita da una Regione) o addirittura per conquistare un’autonomia speciale, di tipo sud-tirolese.

I cittadini sono stati chiamati al voto per ribadire l’esistenza di una cronica e irrisolta questione settentrionale e reclamare la proprietà “territoriale” del gettito del Nord. In modo diverso da come faceva Bossi con la sua minacciosa retorica bellica, anche stavolta la Lega ha voluto unire regionalismo e separatismo, saltando a piè pari ogni considerazione federalista. Non è la prima volta, nella storia della Seconda Repubblica, che la Lega usa la questione settentrionale come semplice rovescio della questione meridionale, con una retorica uguale e contraria, ma altrettanto vittimistica.

D’altra parte, regionalismo e separatismo, territorialismo e indipendentismo fiscale sono forme di particolarismo, non di federalismo, che è sempre – dove è davvero federalista – un ideale unitario e non disgregativo di realtà politico-territoriali differenti in termini economico-sociali e culturali. Il federalismo non esclude affatto trasferimenti fiscali tra diverse aree territoriali, ma li presuppone. Semplicemente definisce in modo efficiente e trasparente le relazioni istituzionali tra le realtà federate, secondo un principio di responsabilità economica e politica.

In qualunque Paese – non ci sono eccezioni - ci sono aree con un residuo fiscale positivo e uno negativo. A meno di non ipotizzare uno stato fiscale comunista, dove tutti i territori hanno lo stesso reddito e la stessa struttura socio-demografica, c’è sempre, anche nelle realtà super federaliste, un processo redistributivo del gettito. Il problema è se questo effetto diventa una rendita e un disincentivo all’efficienza. In Italia però il disincentivo all’efficienza è stato, al Nord come al Sud, più legato al regionalismo (come dimostra l’aumento della spesa regionale, dopo la riforma costituzionale del 2001), che al centralismo. Quindi tutte le rivendicazioni di autonomia rischiano di consolidare l’idea malata e alla lunga insostenibile che il federalismo sia una sorta di guerra sulle risorse fiscali, tra territori gli uni contro gli altri armati.

La Lega Nord ha ribadito il proprio controllo politico del Nord a partire da una piattaforma politico-ideologica – sovranismo monetario, deficit spending, welfarismo assistenziale, protezionismo commerciale, autarchia alimentare – da stato libero di Bananas. Anche il ribellismo referendario è un corollario di questo disegno. Quanti in buona fede hanno voluto partecipare a questo “sabba democratico”, vedendone o non volendone vedere i rischi o pensando di raddrizzarne la piega, usciranno da questo voto delusi quanto quelli che, dal primo momento, hanno denunciato gli equivoci della propaganda plebiscitaria.

L’afflusso massiccio alle urne è sicuramente un fatto politico rilevante, ma appartiene ancora all’ordine dei problemi, non delle soluzioni. Come il voto al M5S – democraticamente altrettanto rispettabile e politicamente altrettanto velenoso – è sintomatico di un processo di alienazione politico-culturale sulle cause e sulle conseguenze della crisi italiana e sulle difficoltà del Nord che non ha nulla, assolutamente nulla, di promettente. Da oggi abbiamo solo un problema in più, non in meno.

Come il voto sulla Brexit, anche il voto lombardo-veneto aggiunge un altro muro e un altro vicolo cieco al labirinto del destino europeo. La corsa di giornaloni e partitoni a rendere omaggio a questo pronunciamento popolare, come se fosse il responso di un oracolo, appartiene invece alla più tradizionale e domestica cialtroneria italiana.

@carmelopalma