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Dietro le spinte secessioniste catalane, scozzesi o venete (ma l'elenco potrebbe essere molto più lungo) c'è un coacervo di opinioni, emozioni e ragioni storiche complesso e variegato. Ogni singola realtà ha le sue peculiarità e non può essere davvero associata alle altre. A cominciare dalla lingua, che è un innegabile e fortissimo fattore identitario: in Catalogna fino a 40 anni fa - dunque nell'orizzonte di vita di una fascia importante dell'attuale popolazione - il regime franchista vietava di parlare catalano in pubblico e la repressione ha paradossalmente conservato e alimentato l'uso di una lingua che oggi ha più madrelingua di quanti non ne abbia lo svedese o il norvegese, e viene usato per la formazione universitaria.

In Scozia e in Veneto le lingue hanno ormai una valenza residuale e dialettale, nonostante il nobile passato e l'assenza di divieti e imposizioni. Ancora, la Catalogna e il Veneto sono aree più ricche degli Stati di cui fanno parte e le rivendicazioni hanno anche natura fiscale e finanziaria, in Scozia la situazione è capovolta (nonostante la "droga" del petrolio del Mare del Nord). I movimenti autonomisti catalani e scozzesi hanno per convinzione o interesse un tratto europeista, valore che manca invece nel caso veneto. Infine, gli scozzesi hanno recentemente votato per un referendum legittimo e concordato con lo Stato centrale, i catalani hanno votato per un referendum non concordato e dichiaratamente illegittimo, i veneti (come i lombardi) voteranno per un referendum d'indirizzo molto vago su eventuali competenze legislative aggiuntive da richiedere allo Stato.

Un elemento comune di queste vicende sfugge spesso al racconto e al dibattito: l'opinione secondo cui "soli si starebbe meglio" è in fondo favorita dai bassi costi percepiti di exit. I catalani oggi vivono in uno spazio senza confini: possono andare in Francia o nel resto della Spagna senza dogana, commerciano liberamente con i propri vicini nella stessa moneta e da qualche mese non hanno neppure il problema del roaming telefonico quando si trovano a Perpignano, nella Catalogna francese. Fatto ancora più importante, un loro eventuale Stato indipendente sarebbe certamente soggetto alle minacce terroristiche (come accaduto proprio a Barcellona qualche mese fa) ma non dovrebbe affrontare alcuna minaccia militare tradizionale proveniente dai vicini. I veneti non hanno paura dell'esercito austriaco o di quello sloveno, né gli scozzesi temono le invasioni scandinave.

Questi sono i risultati positivi e innegabili dell'Europa unita, del grande processo di integrazione continentale che dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ha dato all'Europa occidentale una pace duratura e una libertà prima sconosciute e insperate (leggasi Kant, ad esempio). Invece senza i famigerati peshmerga, l'esercito reso recentemente famoso dalla guerra all'Isis, il Kurdistan iracheno avrebbe molte poche chance di indipendenza e di sicurezza, considerati la natura e gli "appetiti" dei paesi confinanti.

Ma in Europa persino i tentativi di secessione appaiono ormai delle tranquille scampagnate. I costi di uscita, in realtà, sarebbe elevatissimi proprio per le ragioni suddette: la Spagna - tanto più in caso di secessione unilaterale - non consentirebbe l'ingresso della Catalogna nell'Unione Europea e nella Nato, idem se a secedere fosse il Veneto dall'Italia. Non è un caso che, tra i britannici, gli scozzesi siano stati i più fervidi sostenitori del "Remain" al referendum sulla Brexit e ancora oggi sperano di restare nel mercato comune o comunque di poter strappare un accordo separato e più favorevole con l'Unione Europea, dopo il divorzio del Regno Unito. E non è escluso che tentino nuovamente la carta dell'indipendenza.

C'è senza dubbio nei movimenti secessionisti europei il riflesso del "piccolo mondo antico" in lotta contro la modernità che uniforma e rompe le tradizioni, quella paura per la globalizzazione che oggi è un elemento costitutivo delle forze populiste del Vecchio Continente, ma c'è anche un'aspirazione all'efficienza e al buon governo che dovrebbe far riflettere sul grande anello debole dell'Europa di oggi: l'inadeguatezza degli Stati nazione quali erogatori di servizi ai cittadini, dalla difesa al welfare, passando per la scuola, le infrastrutture o le regole di funzionamento dei mercati.

È il successo dell'Unione Europea, in fondo, a decretare il declino dello Stato nazione europeo: a volte troppo grandi e a volte troppo piccoli per svolgere i compiti assegnare. Ma sono anche gli Stati nazione stessi ad aver fortemente contribuito alla propria delegittimazione, con politiche pubbliche irresponsabili e miopi, alimentate a debito e a danno delle aree più prospere e produttive del loro territorio, e con una forte resistenza all'innovazione e alla competizione globale. La richiesta di autonomia del Veneto e della Lombardia ha certamente un movente politico - la Lega che prova a competere con il Pd e il centrosinistra, usando la frattura "Roma vs Nord" - ma avrà un grosso successo elettorale perché c'è un innegabile sottostante: il fallimento di decenni di assistenzialismo per il Mezzogiorno d'Italia, il travaso di risorse da Nord a Sud che non ha dato alcun risultato concreto in termini di convergenza economica e sociale tra le due grandi polarità geografiche d'Italia.

La tentazione di stare con i catalani o con gli spagnoli, di scegliere un nazionalismo o l'altro, è forte e concreta come quando si decide se tifare per i cowboy e gli indiani. Torti e ragioni si rincorrono. La verità è che, al netto delle peculiarità delle singole vicende, si pone oggi il problema di come integrare le rivendicazioni di autonomia con il grande spazio civile che chiamiamo Europa. La soluzione - banale come solo le cose di buon senso sanno essere - si chiama "modello federale". Per dirla con le parole dei dirigenti di Radicali Italiani, occorre "un assetto federale che preveda una distribuzione equilibrata della sovranità tra i vari poteri e livelli istituzionali, una distribuzione di competenze esclusive". E aggiungiamo noi: che favorisca un clima di libertà, competizione e responsabilità fiscale dei singoli livelli di governo, senza eccessi di costruttivismo e pretese di armonizzazione.

Il conflitto che c'è tra il diritto (o la pretesa) all'autodeterminazione e la difesa dell'integrità territoriale degli Stati, da cui discendono peraltro conseguenze fondamentali anche sui conti pubblici e sugli equilibri finanziari degli Stati stessi, può essere risolto solo ricorrendo ai principi e alle dinamiche "pattizie" del federalismo. Tra i quali, uno fondamentale è il riconoscimento della cittadinanza federale ai cittadini, perchè godano di diritti, di libertà e di doveri dovunque essi vivano.

Non ci sarà in tempi brevi un Consiglio Europeo o un incontro di leader dei governi nazionali dedicato a una riforma federale dell'Unione Europea. Sarebbe utopia crderci, o forse illusione. Ci può invece essere - e forse dovrebbe esserci - l'emersione politica del tema, la caratterizzazione delle istituzioni europee e in particolare del Parlamento Europeo come luoghi dove i rappresentanti dei cittadini, e dei territori in cui costoro abitano, portano istanze, rivendicazioni e aspirazione locali, anche quelle secessioniste e autonomiste. Anche per questo, c'è bisogno di politicizzare l'Europa, insomma, di far nascere una politica non derivata da quelle nazionali, ma autenticamente europea.

@piercamillo