Macron Merkel

En Marche! non nasce da un vuoto di rappresentanza nella 'geografia politica' francese. Emmanuel Macron entra nella corsa quando il designato a occupare lo spazio post socialista-proto sarkozista avrebbe dovuto essere Emanuel Valls, il delfino-sfidante di François Hollande. Se avesse voluto fare un calcolo a tavolino, pianificare una vittoria senza rischi, Macron non si sarebbe mai candidato. Ha avuto fortuna.

Fatto fuori Valls alle primarie Psf; massacrato il gaullista Fillon; raccolti finanziamenti mai rendicontati; aggregati i feudatari di voti di ogni colore e in ogni regione; allestiti i provini per le facce nuove da mandare in tv; macinato chilometri nella Grande Marche attraverso i comuni di Francia; conquistati i media, le signore-bene e - va da sé - gli establishment finanziari global-nazionalisti, Macron conquista persino gli apparati europei a cui la prospettiva di un ritorno ai fasti della diarchia franco-tedesca appare una rassicurante garanzia di longevità.

Macron vince. La Francia vince. L’Europa invece no. E qui sta l’equivoco: si è confusa la fortuna di uno spin estetico - il blu delle bandiere europee, elemento distintivo del candidato - con un contenuto conseguente: federalismo, integrazione, magari democrazia. Non è mai stato così.

Con il libro-manifesto Révolution, scritto di suo pugno e pubblicato all’esordio della grande avventura, Macron racconta di sé, della sua voglia di rinnovare la francesità grandiosa e colta di cui la sua infanzia è stata nutrita. Descrive i connotati di questa Francia eterna che può tornare grande, come in un nuovo momentum De Gaulle. All’Europa è riservato un capitolo, l’ultimo, la cui sintesi è: Europa sì, ma non così

L’Europa di Macron è una “ragione giuridica” di impatto globale, quindi utile a rafforzare del connotato continentale la flotta economica ed industriale francese, che Macron vuol proteggere (anche dall’Europa). Issando bandiera blu, Macron ha offerto ai francesi la conquista del consiglio d’amministrazione europeo con l’obiettivo di perseguire - e affermare - l’interesse nazionale. Non altro.

Ha spiegato ai francesi che l’Europa serve a combattere la concorrenza cinese e difendere i posti di lavoro dei francesi di Francia. Italiani, spagnoli, olandesi e il resto dei 27 restano competitor di un interesse nazionale che, a differenza dei nazionalisti spaventati, Macron sa potersi affermare esclusivamente nella dimensione economico-spaziale euroglobale.

È nazionalismo globalista, non europeismo. Macron punta esplicitamente alla leadership bi-nazionale franco-tedesca, dunque alla reiterazione del decision-making inter-governativo che ha via via svuotato l’Europa di senso, desertificando di strumenti e argomenti la prospettiva post-nazionale dell’europeismo fondativo.

Quello che Macron ha offerto agli elettori, parlando di Europa, non è una visione di Europa ma uno standing nazionale francese in Europa. Con Macron “l’europeista” - ed è questo il bello - si compie una mortificazione plateale della dimensione trans-nazionale, dunque appunto della ragione sociale europea. No, qui lo scontro non è mai stato tra “aperto” e “chiuso”: continua ad essere tra chiuso-chiuso e diversamente chiuso.

È comprensibile che i francesi abbiano accolto la via sciovinista all’Europa con entusiasmo. Meno comprensibile è l’incanto dei trans-nazionalisti, che di quello sciovinismo sono le prime vittime. E questo la dice lunga sull’inerzia intellettuale delle élites italo-europee - adagiate nella convinzione che basti metterci la faccia, la bandiera, lo slogan europeo per salvare l’Europa dalle bugie, le calunnie, gli orrori sciovinisti degli stessi europei.

I rifugiati che arrivano dall’Italia li accogliamo, gli altri no. Con questo primo, per fortuna precoce, e certamente definitivo schiaffone di Macron all’Europa, l’augurio è che gli europeisti per convinzione escano dal trip delle loro bandiere, i leit motiv, le guerre di civiltà e si mettano seriamente a costruire contenuti.

Interroghiamoci su come un cinquantenne europeo laureato che ha fatto per una vita un lavoro di cervello potrà mai competere con un algoritmo; e quali saranno le ricadute in termini di sostenibilità umana, prima ancora che economica, di uno scenario in cui lavorano le intelligenze artificiali, mentre a quelle naturali si riserva tutt’al più la manutenzione.

La ricetta che fu vincente negli Anni '90, e che ancora viene evocata nella sua generica, retorica, risolutività - la formazione professionale - non è semplicemente più applicabile.

C’è spazio eccome, per l’Europa. Basta assumersi la responsabilità di riempirlo.

@kuliscioff