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Ci sono i pro e i contra Lump of Labour Fallacy (LLF), un po’ come per lunghe stagioni la teoria economica ha visto fronteggiarsi i monetaristi e keynesiani per chi avesse ragione nell’interpretare una volta per tutte il funzionamento del sistema economico.

Negli ultimi anni - causa invecchiamento della popolazione, riforme delle pensioni alla ricerca della sostenibilità e mercati del lavoro fiaccati dalla crisi – le due “fazioni” si stanno sempre più spesso fronteggiando, e il confronto, sino a un po’ di tempo fa relegato all’ambiente accademico (chi aveva sentito parlare di LLF al di fuori del circuito degli specialisti?), è approdato al dibattito quotidiano e anche sui giornali (si veda per esempio l’articolo di D. Colombo sul Sole24Ore di sabato 3 giugno u.s.).

 

1. Che cos’è la LLF?

La LLF è quel filone della letteratura economica secondo cui non esiste un vincolo superiore alla domanda di lavoro, e aumenti di occupazione degli anziani, in particolare come conseguenza di riforme pensionistiche, non sottraggono spazio alle altre fasce di età. Questo risultato è generalizzato: per la teoria della LLF non c’è mai crowding-out giovani versus anziani sul mercato del lavoro, né nel lungo né nel breve periodo, né durante ciclo favorevole né durante ciclo avverso, etc. Carriere lavorative più lunghe e tassi di occupazione più alti per gli anziani sono sempre associabili a maggiori opportunità lavorative e più elevati tassi di occupazione per i giovani. Simmetricamente, politiche di prepensionamento sono inefficaci o addirittura dannose nel promuovere l’occupazione dei giovani. Ed è proprio la generalizzazione di questo assunto, e non tanto l’assunto in sé, che ha sollevato perplessità alimentando le discussioni.

Seguendo un recente lavoro pubblicato dall’Ufficio parlamentare di bilancio (il Focus n. 6 del 4 agosto 2016), le spiegazioni più ricorrenti della teoria del LLF sono di tre tipi:

In primo luogo, si evidenzia che le forze di lavoro di diversa età non sono omogene per esperienza, capacità e vocazioni, e che quindi giovani e anziani sono complementari e non sostituibili all’interno degli organici. In questa prospettiva, un turnover generazionale incentivato, o addirittura indotto da misure di prepensionamento, potrebbe squilibrare la composizione delle forze di lavoro con effetti negativi sulla produttività e sulla crescita.

In secondo luogo, un pensionamento degli anziani usato per far posto ai giovani creerebbe immediatamente maggiore spesa per pensioni che, se finanziata a ripartizione (pay-as-you-go) come in Italia, assorbirebbe maggiori risorse fiscali e contributive, con potenziali effetti distorsivi sia sul lato dell’offerta di lavoro sia sul lato della domanda.

Come terza spiegazione, si chiama in causa la composizione della spesa pubblica per welfare che, quando sbilanciata eccessivamente sul capitolo pensioni per eccesso di uscite a età relativamente basse, manca di sufficienti risorse da dedicare agli altri istituti di welfare, e in particolare a politiche attive e passive del lavoro, misure di conciliazione vita-lavoro, politiche per la famiglia e le non autosufficienze, altri interventi proprio per i giovani e la formazione, etc. Le conseguenze di questo sbilanciamento verso il capitolo di spesa pensioni sono ben note in Italia e rappresentano una delle differenze più importanti rispetto ai Partner europei e anche uno degli ostacoli più seri alla riforma degli ammortizzatori sociali (il Jobs Act è sin dalla nascita alla ricerca di sufficienti risorse strutturali) e allo sviluppo del welfare to work [1].

 

2. Alcuni esempi di letteratura pro LLF

Come esempio di applicazione della LLF per l’Italia c’è il lavoro di A. Brugiavini 
e F. Peracchi (2010) [2]. Gli autori regrediscono alternativamente il tasso di disoccupazione e il tasso di occupazione dei giovani (20-24 anni) e dei non anziani (25-54) sul tasso di attività degli anziani (55+), utilizzando come variabili di controllo il PIL, l’età di istruzione obbligatoria, la mediana dei redditi da lavoro, il livello di retribuzione contrattuale, la percentuale di giovani iscritti a corsi scolastici e universitari. Il periodo in esame va dal 1970 al 2005. In tutte le specificazioni funzionali (in livelli e variazioni, con variabili contemporanee o con lag), i tassi di disoccupazione e occupazione dei più giovani e quello di attività degli anziani tendono a coevolvere durante il ciclo [3]. Non c’è crowding-out generazionale, e quante più persone disposte a lavorare ci sono tanto più alti riusciranno a essere l’occupazione totale e il prodotto di equilibrio. Nel contempo, però, va sottolineato che gli autori ottengono questo risultato guardando al trend di lungo periodo su 35 anni (è questo il senso della regressione) e, soprattutto, neutralizzando, grazie alle variabili di controllo, le condizioni congiunturali, demografiche, di struttura che possono rendere il trade-off giovani-anziani più o meno crudo in questa o quella stagione.

Una impostazione simile ha il recente lavoro pubblicato all’interno della Relazione annuale della Banca d’Italia per il 2016 (presentata a fine maggio u.s.) [4]. Si utilizzano i tassi di occupazione a livello provinciale della “Rilevazione delle forze di lavoro” dell’Istat. Sul periodo 2004-2016, e dopo aver controllato per le condizioni cicliche e per le caratteristiche di ciascuna provincia, nella media di tutti gli anni e di tutte le province emerge un legame lievemente positivo tra le variazioni del tasso di occupazione dei giovani (15-34) e quello degli anziani (55-69). Lo stesso risultato (legame lievemente positivo) emerge tra i flussi netti di assunzioni di giovani e anziani presso la stessa impresa, all’interno di un campione rappresentativo di imprese con almeno 20 addetti osservato negli anni 2008-2015.

I due lavori citati per l’Italia forniscono una idea della ratio alla base delle analisi di LLF, anche di quelle applicate ad altri Paesi e a dati panel internazionali [5]. Dopo aver depurato il legame tra i tassi di occupazione da fattori congiunturali, ciclici, territoriali, etc., ne scaturisce un valore “astratto”, che ci dice una cosa sicuramente importante ai fini delle scelte di policy ma anche abbastanza ovvia, e cioè che sul mercato del lavoro non esiste un conflitto giovani versus anziani per sé, come dato di fatto e come se si trattasse di categorie sociali “geneticamente” conflittuali; al contrario i due gruppi, in condizioni di normalità dell’economia, sono complementari e auspicabilmente collaborativi. Questo tratto di “astrattezza” aumenta all’allungarsi del periodo esaminato e all’ampliarsi nel numero dei territori e dei Paesi coinvolti nell’analisi (la dimensione del panel), perché la stima del legame, mediando su più anni e su più realtà economiche e lavorative, finisce per mandare ancor più in secondo piano elementi di attualità specifici del territorio e del Paese.

 

3. Alcuni esempi di letteratura contra LLF

Ma siamo sicuri di essere interessati solo e soltanto a questo, sia pure importante, risultato? Proprio a partire da questa debolezza a fornire indicazioni a breve e contestualizzate, dalla teoria della LLF si è recentemente staccato un sottofilone che approfondisce la casistica in cui la dimensione del mercato del lavoro possa effettivamente mostrare rigidità o resilienza di fronte agli aumenti di occupazione degli anziani indotti soprattutto da riforme pensionistiche, con crowding-out a scapito delle altre fasce di età.

Come esemplificazioni per l’Italia si possono considerare i lavori di Bia, Messe e Leombruni (2014) e quello di Boeri, Garibaldi e Moen (2016), entrambi recenti e relativi agli effetti della riforma pensionistica “Fornero” del 2012 [6]. Il primo contributo è un’analisi econometrica a livello di sistemi locali del lavoro tra il 1985 e il 2002. Emerge una correlazione significativa tra il flusso netto in uscita degli anziani (ultracinquantenni) e il flusso netto in entrata dei lavoratori più giovani. Gli autori stimano un tasso di sostituzione superiore all’unità (over crowding-out). Il secondo contributo utilizza dati Uniemens e confronta l’andamento delle assunzioni di giovani tra imprese che differiscono per numero di occupati bloccati dall’inasprimento dei requisiti pensionistici [7]. Varie tecniche econometriche (doppie differenze, propensity score matching, rolling regressions su dimensione impresa, etc.) fanno emergere un forte e significativo effetto negativo sulle assunzioni di giovani: un rinvio di cinque anni-lavoratore (ad esempio un lavoratore bloccato per cinque anni o due lavoratori bloccati per due anni e mezzo, etc.) implicano un giovane assunto in meno. Proiettando questi risultati sull’insieme delle imprese con più di quindici dipendenti del settore privato rimaste attive per tutto il periodo 2008-2014, gli autori stimano che la riforma del 2012 avrebbe ridotto le assunzioni di giovani di 37mila unità, circa un quarto del calo delle assunzioni di giovani registrato nel periodo.

Insomma, questi due ultimi esempi, tagliati sul caso italiano, mostrerebbero che, se invece di mirare a risultati generalizzabili nel tempo e nello spazio, si guarda a come giovani e anziani possono entrare in conflittualità sul mercato del lavoro in un preciso momento e a seguito delle condizioni che si creano in un determinato Paese, allora il ventaglio delle evidenze si allarga e con esso anche quello delle strade imboccabili dalla policy. Se siamo interessati a capire, non quale sia il trade-off generazionale “al netto” della crisi, della dinamica del Pil e delle differenze tra mercati locali del lavoro (il legame “astratto”), ma quali proporzioni quel trade-off può assumere nel mezzo della crisi e delle scelte di policy dettate dalla crisi, lavori come Bia, Messe e Leombruni (2014) e Boeri, Garibaldi e Moen (2016) sembrerebbero godere di una maggior presa sulla realtà immediata.

 

4. In conclusione

Ma queste ultime parole non vogliono essere una sconfessione della LLF. È sbagliato vedere i due filoni della letteratura (pro e contra) come antagonisti e alternativi, come due scuole di pensiero inconciliabili. Entrambi i filoni sottolineano aspetti importanti per le politiche previdenziali e del lavoro. Da soli non spiegano a sufficienza.

La LLF mostra chiaramente che scelte di prepensionamento ripetute nel tempo, o requisiti di pensionamento bassi e inadeguati rispetto alla durata della vita, non portano a nulla di buono, danno l’illusione di creare lavoro per i giovani (o di creare lavoro in generale) ma a scapito di squilibri destinati prima o poi a esplodere. È il déjà-vu dell’Italia degli anni prima del ciclo di riforme pensionistiche anni ‘90. Su questi errori la LLF ha contribuito a mettere una pietra tombale.

Dal canto loro, i contributi contra LLF (come i due citati per il caso italiano) veicolano un altro messaggio importante che non ha a che fare con i prepensionamenti o i pensionamenti facili (questo caveat è importante) [8]: innalzamenti dei requisiti pensionistici dovrebbero essere realizzati il più possibile con gradualità ed evitare la natura coercitiva che inevitabilmente accompagna la fissazione di soglie puntuali alte, soprattutto quando dotate di automatismi di progressione [9]. Questo risultato è tanto più vero quando l’innalzamento dei requisiti avviene durante una grave crisi economica e con un mercato del lavoro affetto da debolezze strutturali, anche precedenti la crisi, come quello italiano.

Abbiamo smesso da tempo di chiederci se il mondo è tutto monetarista o tutto keynesiano per passare al compito più difficile di selezionare ricette monetariste o keynesiane a seconda della necessità e dello strumento più utile. Converrebbe fare lo stesso per i dibattito tra chi sostiene a spada tratta la LLF e chi dice che è tutta sbagliata.


Note al testo

[1] In alcuni autori si riscontra anche una quarta spiegazione che chiama in causa il disincentivo ad accumulare capitale umano quando questo può essere utilizzato su una vita lavorativa di durata inferiore. Nel tempo, questo disincentivo si tradurrebbe in minore qualità delle forze di lavoro e minore crescita, con più scarse possibilità occupazionali per tutti.

[2] Si veda: Brugiavini A. e Peracchi F. (2010), “Youth Unemployment and Retirement of the Elderly: the Case of Italy”, in Gruber J. e Wise D. A. (2010), “Social Security Programs and Retirement around the World: the Relationship to Youth Employment”, The University of Chicago Press.

[3] Il driver principale è la dinamica del PIL, e questo risultato si mostra robusto all’introduzione di variabilità di genere (serie storiche per maschi e femmine) e variabilità territoriale (panel regionale). I risultati non cambiano se, al posto del tasso di attività degli anziani, la variabile indipendente è un indicatore di incentivo al pensionamento à la Gruber-Wise (differenza tra valore attuale dei redditi netti ottenibili con diverse scelte di pensionamento o prolungamento di carriera). L’evidenza suggerisce che quanto più forti sono gli incentivi ad anticipare il pensionamento (impliciti nelle regole pensionistiche), tanto più alto tende a essere il tasso di disoccupazione dei più giovani e più basso il loro tasso di occupazione.

[4] Si tratta, in realtà, di un riquadro che anticipa alcuni risultati di un working paper di prossima pubblicazione all’interno della collana ‘Questioni di economia e finanza’ della Banca d’Italia.

[5] Per una applicazione a un panel internazionale, si veda: “Comparison and contrasts of the impact of the crisis on euro area labour market”, BCE Occasional Paper n. 159/2015.

[6] Bia M., Messe P. J. e Leombruni R. (2014), “Young in Old out: a new evaluation”, TEPP − Institute for Labor Studies and Public Policies, WP n. 2010-14; Boeri T., Garibaldi P. e Moen E. (2016), “A Clash of generations? Increase in Retirement Age and Labor Demand for Youth”, WorkINPS Papers n. 1.

[7] Le imprese con lavoratori bloccati hanno in media 11 anni di blocco (sommando gli anni di blocco di tutti gli occupati bloccati).

[8] I requisiti pre riforma “Fornero” non potevano certo essere tacciati di essere esageratamente laschi e ai livelli dei prepensionamenti visti in passato.

[9] Per far fronte alle dinamiche demografiche, aggiornamenti periodici e automatici sono una caratteristica positiva dei sistemi pensionistici. Tuttavia, quando applicati a requisiti di pensionamento puntuali e già alti, gli automatismi possono enfatizzarne i difetti.