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Il voto francese scaccia lo spettro populista che aleggiava sull’Eliseo, ma non è affatto – come ha detto la sconfitta Marine Le Pen – un voto “di continuità". Macron è stato assai più della sua avversaria un fenomeno di rottura radicale degli equilibri politici (e partitici) della V Repubblica.

Il successore di Macron non è solo un fenomeno nuovo: un “tecnocrate” che nel giro di nove mesi fonda un partito, si candida alle presidenziali e sbaraglia al primo turno tutti i concorrenti del fronte repubblicano anti-lepenista. È anche un fenomeno innovativo, che realizza un traumatico superamento delle partizioni con cui il sistema politico francese aveva ingabbiato le appartenenze ideologiche novecentesche e che propone come ideale unificante di un Paese sciovinista quello sovranazionale dell’Unione europea, simbolicamente rappresentato dalla decisione di presentarsi, appena eletto, ai francesi sulle note dell’Inno alla gioia.

La durata dei fenomeni, anche dei più straordinari, nella storia politica contemporanea non è mai prevedibile. Il rischio dell’evanescenza incombe in particolare su quelli di segno più radicale. Chi avrebbe pronosticato che nell’America che aveva eletto per due volte plebiscitariamente il suo primo Presidente nero, pochi decenni dopo la fine della segregazione e che sembrava pacificamente convertita al verbo obamiano, si sarebbe potuta coltivare e realizzare una rivincita così clamorosa come quella consumata con la vittoria di Trump?

In questi rovesciamenti, compreso quello che ha premiato ieri Macron, conta la combinazione di molti fattori economici, sociali, culturali e istituzionali, che porta a esiti repentinamente reversibili, sulla base di una (neppure troppo) diversa combinazione dei medesimi fattori. Esagerava chi temendo l’ascesa della Le Pen, con Hollande allo sbando e i post-gollisti divisi, dichiarava l’Europa già spacciata. Esagera chi pensa che con il voto di ieri sera l’Europa sia salva. Macron peraltro deve fare un miracolo ancora più grande alle prossime legislative e provare a trasformare la maggioranza presidenziale in una maggioranza politica (anche se, con ogni probabilità, di coalizione), per non diventare subito un Presidente dimezzato.

Visto dall’Italia, il voto francese è incoraggiante, ma non tranquillizzante, perché l’Italia purtroppo non somiglia alla Francia né per le caratteristiche dei partiti antisistema, né per la natura e le dimensioni del potenziale fronte repubblicano in grado di opporsi ad essi. Il voto populista italiano è un voto politicamente più articolato e diffuso, e non è costituito esclusivamente da partiti di destra o di sinistra elettoralmente plafonati, come Le Pen (o Melenchon), dalla propria connotazione ideologica, ma è rappresentato in primo luogo dall’unico grande partito populista europeo radicalmente post-ideologico, il Movimento 5 Stelle, che ha già dimostrato di poter essere il contenitore trasversale e potenzialmente maggioritario delle identità politiche, culturali e sociali più diverse.

In nessun sondaggio Le Pen è mai stata data per vincente nella corsa per l’Eliseo. In quasi tutti i sondaggi dei lunghi mesi che hanno preceduto la (provvidenziale?) rottamazione dell’Italicum da parte della Consulta il M5S era dato vittorioso al ballottaggio contro il PD. Inoltre, la somma dei voti dei partiti antisistema (comprendendo anche Lega e FdI) in Italia oggi rischia di superare il 50% dei voti, mentre non esiste sulla carta nessun fronte repubblicano tricolore da contrapporre alla loro ascesa. A parte il PD, che malgrado una legge elettorale proporzionale e la soglia del 40% per il premio di maggioranza continua a rifiutare sdegnosamente qualunque ipotesi di alleanza (e qualunque riforma elettorale che la preveda), da chi altri dovrebbe essere composto, oggi? Da Berlusconi?

Se quindi il ballottaggio per l’Eliseo conferma che il vero problema dell’Europa siamo noi e che l’unico voto in cui è seriamente a rischio la tenuta della costruzione europea sarà quello delle prossime elezioni politiche, gli europeisti, o aspiranti tali, italiani dovrebbero trarre una morale edificante dalla lezione francese: che per difendere la prospettiva europeista non serve screditare l’Europa reale, in nome di quella ideale, facendone a giorni alterni, con uguale enfasi retorica, il capro espiatorio dei mali nazionali e il sole dell’avvenire del nostro destino.

@carmelopalma