Tra gli aspetti meno affrontati dell'assurda Web Tax inserita con un emendamento del Partito Democratico nel testo della Legge di Stabilità 2014 dalla Commissione Bilancio della Camera, c'è l'effetto negativo che la norma produce sull'export italiano.

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L'emendamento Fanucci recita al suo secondo comma: "Gli spazi pubblicitari on line e i link sponsorizzati che appaiono nelle pagine dei risultati dei motori di ricerca (servizi di search advertising), visualizzabili sul territorio italiano durante la visita di un sito internet o la fruizione di un servizio on line attraverso rete fissa o rete e dispositivi mobili, devono essere acquistati esclusivamente attraverso soggetti, quali editori, concessionarie pubblicitarie, motori di ricerca o altro operatore pubblicitario, titolari di partita IVA rilasciata dall'amministrazione finanziaria italiana".

Come ho segnalato su Leoni Blog, se si desse applicazione a tale previsione si giungerebbe al paradosso secondo cui il sito del New York Times o del China Daily potrebbe vendere pubblicità a inserzionisti italiani solo a attraverso una partita IVA italiana, in quanto tale sito è accessibile dall’Italia. Di fatto, una norma siffatta introdurrebbe un pesante ostacolo per le aziende nostrane: non potrebbero investire in campagne pubblicitarie Internet per il mercato estero, a meno che il citato New York Times – per restare all'esempio di cui sopra – non si affidi ad un soggetto titolare di partita IVA italiana per l'intermediazione della pubblicità o non implementi un filtro dei suoi contenuti per il mercato italiano, tale da non rendere visualizzabili dal territorio della Repubblica gli spazi pubblicitari degli inserzionisti italiani. Una vera follia.

Nel merito, quindi la Web Tax italiana rappresenterebbe non solo un disincentivo agli investimenti esteri nel nostro Paese, anche in virtù del messaggio di sfavore nei confronti dell'economia globale che se ne ricava, contrastante con lo spirito e gli obiettivi del piano governativo Destinazione Italia, ma anche e soprattutto una penalizzazione per le imprese esportatrici italiane e per il Made in Italy. Queste ultime avranno maggiore difficoltà ad accedere agli spazi pubblicitari online nel mondo, perché l'obbligo per editori e concessionari pubblicitari stranieri di dotarsi di un partita IVA italiana per vendere spazi pubblicitari "visualizzabili sul territorio italiano" rischia di produrre una contrazione dell'offerta ed aumento dei prezzi per gli inserzionisti.

Il tutto avviene curiosamente poche settimane dopo la diffusione di dati che dovrebbero spingere, semmai, nella direzione opposta: nel primo semestre 2013 le ricerche su Google relative ai settori chiave del made in Italy sono cresciute nel mondo dell'8 per cento rispetto allo stesso periodo del 2012 (si veda questo interessante articolo di Fabrizio Patti su Linkiesta per un approfondimento), a ulteriore conferma che l'export è una delle poche ancore di salvezza dell'economia italiana, soprattutto nei settori di alta qualità.

Paradossalmente, mentre i promotori della misura si lanciano in strali contro le "multinazionali del web", ree a loro giudizio di pagare poche tasse in Italia, la Web Tax non danneggerà più di tanto Google, Facebook o Amazon: non è un problema insormontabile per queste società dotarsi di una partita IVA italiana. Ad essere danneggiati saranno prevalentemente gli operatori più piccoli: per un ipotetico produttore veneto di macchinari industriali, sarebbe praticamente impossibile pubblicizzare i suoi prodotti su un sito specializzato tedesco, perché per quest'ultimo non ha senso dotarsi di una partita IVA del nostro Paese solo per i pochi potenziali inserzionisti. È più probabile che il nostro imprenditore veneto, per pubblicità all'estero finisca allora per rivolgersi ai soliti "giganti della Rete".

Infine, last but not least, aleggia sulla Web Tax un sospetto antipatico, corroborato purtroppo dalla campagna di disinformazione condotta da alcuni grandi gruppi editoriali nostrani: il sospetto, cioè, che dietro gli argomenti "fiscali" della Web Tax, vi sia la solita antica tentazione protezionistica di difendere i "nostri" (il Gruppo L'Espresso, RCS o Publitalia) dagli "altri" e magari di frenare l'avanzata della Rete rispetto al cartaceo e alla tv nel mercato della pubblicità. Che illusione fatale.