Bonino Lingotto

L'intervento della Bonino alla convention renziana del Lingotto ha affrontato il tema dell'immigrazione con un taglio provocatoriamente radicale. Ha ricordato il contributo che la forza lavoro straniera offre alla crescita della ricchezza nazionale e al gettito impositivo e contributivo e la conseguenza strutturale del deterioramento demografico italiano, cioè l'esigenza di prevedere ingressi di circa 150.000 nuovi immigrati ogni anno nel prossimo decennio solo per impedire l'aggravamento del tasso di dipendenza demografica (rapporto tra la popolazione non ancora - o non più - in età da lavoro e quella attiva).

Inoltre, Bonino ha ammonito in modo abbastanza rude sull'opportunità di non vagheggiare, né promettere l'irrealistica espulsione di mezzo milione di irregolari (in larga misura integrati, sia pure illegalmente, dal punto di vista economico) e sulla necessità di non prevedere respingimenti dei richiedenti asilo in Paesi, come la Libia, dove non esiste alcuna garanzia del rispetto dei loro diritti umani fondamentali e neppure della loro incolumità personale.

All'intervento della Bonino hanno più o meno esplicitamente replicato sia il Ministro degli interni Minnitti, sia l'ex Vicesegretario Serracchiani, ricordando l'importanza del tema della sicurezza, o, più propriamente, del crescente senso di insicurezza, come priorità e chiave di interpretazione politica delle strategie sull'immigrazione del Pd e, in generale, di una forza di governo a vocazione "maggioritaria".

Il che, tradotto dal politichese, sta a significare: visto che la maggioranza degli italiani associa il tema dell'immigrazione a quello della violenza e della criminalità noi, come forza politica, non ci possiamo permettere di smentire o sfidare il senso comune, mettendoci a parlare di immigrazione in senso generosamente umanitario o "ragionieristicamente" economico, ma dobbiamo in qualche modo corrispondere il senso di questa emergenza anche dal punto di vista della retorica politica. Tutto - come è evidente - abbastanza prevedibile e scontato.

Il rapporto tra immigrazione e criminalità, d'altra parte, non è invero solo "percepito", ma la natura e le caratteristiche reali di questo rapporto non ne giustificano una rappresentazione univoca o catastrofista. Il tasso di delittuosità della società italiana negli ultimi anni ha avuto un andamento oscillante, ma non direttamente correlato all'aumento della popolazione immigrata residente e regolarmente soggiornante in Italia. È vero che il tasso medio di delittuosità degli stranieri è sensibilmente superiore a quello degli italiani ed è in larga misura concentrato tra gli irregolari, ma è anche vero che la sua crescita, negli ultimi anni, procede più rapidamente tra gli italiani che tra gli stranieri regolari.

Nel complesso, le caratteristiche del fenomeno non consentono di concludere che più immigrazione "produca" più criminalità (perché i crimini denunciati tendono a diminuire, negli ultimi anni, non ad aumentare), ma che gli immigrati stranieri (complessivamente intesi) delinquono più degli italiani. E dunque? Tutto ciò comporta una sfida alle politiche di sicurezza, ma non modifica le caratteristiche di un Paese in cui la crescente presenza di forza lavoro straniera (non solo extra-comunitaria), lungi da configurare un'invasione o una colonizzazione criminale, costituisce un fattore di riequilibrio della sua struttura demografica e della sua competitività economica.

Nel rapporto "Governance delle politiche migratorie tra lavoro e inclusione" si ricorda ad esempio come secondo il Servizio Studi di Confindustria "dal 1998 al 2007 il PIL totale italiano è salito del 14,4% in termini reali (+1,5% in media all’anno), ma senza gli stranieri sarebbe salito solo del 10,5% (1,1% medio annuo); nei successivi sette anni di crisi (2008 -2015) il PIL complessivo è calato del 7,3%, ma sarebbe sceso ancora di più, ovvero del 10,3%, senza i lavoratori immigrati". La crisi economica ha inoltre comportato una netta flessione nella concessione dei permessi di soggiorno nel Paesi europei più colpiti dalla recessione, tra i quali proprio l'Italia, a dimostrazione del fatto che l'immigrazione, cioè la mobilità di un fattore produttivo, il lavoro, è innanzitutto un fenomeno economico e risponde a incentivi e disincentivi di carattere economico.

L'atteggiamento della Bonino, lungi dall'essere "buonista", è "rigorista" e "realista" nel senso del governo rigoroso del fenomeno nelle sue caratteristiche reali. Quello di chi le ha contrapposto il problema della sicurezza è un atteggiamento politicamente "pragmatico", nel senso della necessità di non indisporre un elettorato che, anche su questo fronte, non sembra disponibile a rinunciare a rappresentazioni comode o indulgenti della natura dei problemi epocali che si trova di fronte e delle possibili soluzioni.

È, mutatis mutandis, come sul debito pubblico. La grande maggioranza dell'elettorato italiano, confortata da una retorica edulcorata, pensa che il problema non debba essere affrontato, con gli sgradevoli costi conseguenti, ma possa essere "cancellato" a patto che lo si disconosca come vincolo materiale della politica economica del Paese. Abracadabra.

Rispetto al "debito demografico" di un Paese con tassi di fecondità lontanissimi dall'assicurare il tasso di sostituzione della popolazione, Bonino propone al contrario un atteggiamento scandalosamente irriguardoso nei confronti della vulgata, che pretende che gli immigrati presenti siano troppi (sono pochi, rispetto alle necessità) e debbano essere ridotti (vanno aumentati, per ragioni di necessità) e l'Italia possa salvarsi rinunciando alla fatica e alle complicazioni di un inevitabile "meticciamento".

Francesco Merlo ha raccontato che mentre Bonino parlava al Lingotto un Ministro liquidava le sue tesi sostenendo che avrebbero portato il PD al 3%. È pure possibile che sia vero, visto che questa è stata, mediamente, la misura del consenso raccolto da tutti gli oppositori delle scelte esiziali - dalla pensione a 40 anni, alla democrazia di scambio fondata sul debito - con cui l'Italia si è democraticamente e "pragmaticamente" suicidata negli ultimi decenni. Il realismo, d'altra parte, è tanto più impopolare, quanto più il sistema politico adegua la propria offerta alla comprensibile domanda di "buone" bugie, piuttosto che all'impegno per fronteggiare le "cattive" verità.

@carmelopalma