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È strana e ormai grottesca (se non altro perché va avanti da anni, come uno stanco rituale, con gli stessi argomenti e le stesse polemiche) la zuffa pubblica a furia di social, dibattiti televisivi, sui media, nelle istituzioni, nelle università, tra europeisti e antieuropeisti, tra pro-euro e no-euro.

Sorprende per l'autoreferenzialità: come se il futuro della Ue fosse una questione di semplice buona volontà nell'applicare modelli, norme e procedure astratte, invece che un processo arduo e doloroso di negoziazione e composizione di una molteplicità di interessi concreti, di piani di consenso e visione diversi e spesso in collisione.

Il dibattito acquisterebbe un po' più senso se si ponesse l'obiettivo, più pragmatico, di rispondere all'interrogativo: la Ue e l'euro potranno continuare a esistere a tempo indeterminato nella forma attuale, in assenza di un'unione politica (fiscale, bancaria, diplomatica, militare)?

Se la risposta è sì, sarebbe opportuno motivarla con argomentazioni convincenti, astenendosi da vuote dichiarazioni europeiste di principio. È difficile crederlo - ed è una considerazione triste - perché la Ue, ogni volta che si presenta un problema di interesse europeo ma rispetto al quale gli interessi e i sistemi di consenso nazionali divergono, mette in una posizione impossibile sia i governanti dei paesi membri, tenuti a rispettare i capricci dei propri elettorati, pena la caduta alle prossime elezioni, sia i decisori europei, privi del mandato e degli strumenti minimi per far fronte ai problemi. I trattati europei rendono così tutti quanti impotenti e nessuno 'accountable' per la mancata assunzione di decisioni e di soluzioni.

Sia a livello nazionale che europeo, nella Ue 'dei trattati', nei frangenti difficili si possono solo escogitare soluzioni di facciata, che servono per prendere un po' di tempo sperando che i problemi svaniscano, ma che rischiano di ingigantirli: così è stato con la crisi (irrisolta) dei debiti sovrani greco e italiano, o con quella dei migranti.

Se invece la risposta, in coscienza, è "no", e si riconosce che l'Ue attuale non può continuare a esistere senza collassare per via delle tensioni che essa stessa genera, sarebbe il caso di piantarla con le paternali accademico-giornalistiche sulla 'giustezza' morale, economica, storica, sociale, di 'questa idea di Europa', o con le lezioncine (condivisibili, per carità, ma ormai trite e ritrite) sui 'danni da svalutazione' o sul 'moral hazard' da condivisione di debiti tra paesi spreconi e virtuosi: non si giustificano più, se non come esercizi per gratificare le proprie personali vanità intellettuali di fronte a se stessi o al proprio circolino ideologico.

Sarebbe il caso di iniziare, invece - e sarebbe anche responsabile, da parte di coloro che hanno il privilegio e l'onere di animare il dibattito pubblico e influenzare le opinioni - a discutere seriamente di cosa si può fare, in concreto, per evitare una disastrosa dissoluzione del progetto europeo, e il ritorno a un Europa di staterelli nazionali in competizione tra loro, in un contesto globale sempre più caotico, dovendo fare i conti, per di più, con le deliranti sciocchezze di populisti, sovranisti, teorici dell'autarchia protezionista e via dicendo. È questo ormai, sembra, il tema con cui ci confronteremo nei prossimi mesi e anni.